La giornata tipica del boscaiolo

La giornata del boscaiolo incominciava all’alba quando partiva da casa per recarsi sul posto di lavoro, generalmente a piedi, percorrendo un tragitto che poteva richiedere anche un’ora di cammino. I più fortunati disponevano di vecchie biciclette, che venivano spinte a mano lungo le ripide strade di montagna, rendendo l’ascesa ancor più faticosa, ma velocizzando notevolmente il ritorno a casa.

Il lavoro iniziava alle otto del mattino, dopo che il caposquadra aveva dato a tutti le eventuali direttive e proseguiva ininterrottamente per circa un’ora e mezza; verso le nove e mezza veniva fatta una piccola pausa, bauf, di un quarto d’ora per riposare e mangiare un boccone. Riprendeva poi fino a mezzogiorno quando il cuoco aveva ultimato la preparazione della polenta, un alimento sempre presente nella dieta dei boscaioli. La pausa per il pranzo durava un’ora, ma poteva essere prolungata esistendo di fatto una certa flessibilità nell’organizzazione del lavoro, che prevedeva in ogni modo un’attività giornaliera di otto ore. Mangiando la polenta calda accompagnata dal companatico che ognuno si portava da casa, i boscaioli riprendevano le forze per affrontare le rimanenti quattro ore. Finito di mangiare, c’era ancora il tempo per schiacciare un pisolino all’ombra di un abete, ripensando magari alle difficoltà incontrate durante la mattinata. Il lavoro riprendeva nel primo pomeriggio e continuava fino a sera senza più interruzioni se non quelle per dissetarsi e fumare una sigaretta. Al termine della giornata gli attrezzi venivano nascosti sotto le frasche degli alberi abbattuti e gli uomini facevano ritorno alle loro case.

D. Cuön ch’daa thal bosco voietre stadaa fora duta la dornada. V la sentide da contà n tin com ch’era la dornada?

R. Dormone cadù in Casera Antola… Svelia a le thinche bonora, s partia a le sie, s fadea oto ore sul posto e rivone al sié, sié e meda dadsera a ceda… S tachea a le oto, a le nove e meda fadea al bauf, s mangea un panin e dopo tirone fin a medodì, co l era pronta la polenta. S farmea un ora… Nascondone i atrethe sot le piante, in chi ane là ne n à mai portó via, n à mai robó. Cuan ch’era le dornade d piova te stadea dut al dì in magašin. S lorea fin dal sabo a le tre e gnone dù co le biciclete sentha frene, co na breia sul pedal; par frenà s frachee dù la breia. Se tornea su dal lune bonora. Un an eravone cuaranta, thincuanta. Inera mišeria e i operai era duc’ boscaioi anche se ni era vere boscaioi.[33]

Se i lotti si trovavano troppo lontano dai paesi per potervi fare ritorno ogni sera, i boscaioli alloggiavano nelle casere o nelle malghe dismesse. Spesso capitava, però, che non vi fossero degli edifici nelle vicinanze, rendendo indispensabile la costruzione di un bivacco, cašon/cadon/baraca, edificato con il materiale reperito in loco. Esso aveva una struttura rudimentale e doveva essere sufficientemente grande da ospitare tutti gli operai e da permettere l’accensione di un fuoco, generalmente situato al centro della costruzione. La sua realizzazione era la prima attività di cui si occupavano gli uomini quando iniziavano il taglio di un lotto in una zona che non permetteva altre soluzioni logistiche. Innanzitutto bisognava cercare il posto ideale, rappresentato da un pianoro di terreno asciutto possibilmente protetto dal vento, dal quale togliere i sassi e livellare le eventuali protuberanze naturali. Venivano quindi preparati i pezzi necessari alla costruzione della struttura portante, costituititi dai cimali di alcune piante precedentemente tagliate e da piccoli esemplari martellati a scopo di spurgo. I montanti del bivacco venivano infilati nel terreno e legati agli altri componenti con corde di canapa e qualche chiodo, fino ad ottenere la forma desiderata. Il tutto veniva poi ricoperto dalla corteccia, scortha, degli alberi tagliati, che doveva essere priva di fori per evitare l’infiltrarsi dell’acqua. A tale scopo venivano scelte accuratamente le piante da abbattere verificando che avessero buona parte del tronco sprovvisto di rami o di monconi di questi ultimi, in modo che la corteccia risultasse totalmente integra. Visto che la costruzione del bivacco avveniva generalmente in primavera, quando cioè le piante erano in attività vegetativa, amor, la scortecciatura risultava estremamente semplice e tale da ottenere un unico pezzo, che veniva subito steso a terra e costretto con dei sassi a perdere la propria conformazione cilindrica. Questo lavoro veniva spesso vanificato dal formarsi di rotture longitudinali, soprattutto se la corteccia impiegata era quella dei tronchi basali, molto spessa e rigida. Persa la forma naturale, i pezzi venivano accuratamente fissati alla struttura con dei chiodi di ferro, facendo attenzione a sistemarli in modo che gli elementi posti più in alto sormontassero in parte quelli sottostanti favorendo lo scorrimento superficiale dell’acqua senza il pericolo di fastidiose percolazioni.

I giacigli per la notte, daga, si preparavano in terra, utilizzando le frasche degli abeti mondate dai rami più grossi per rendere la superficie più soffice e confortevole. Qualcuno si faceva portare dalla propria moglie il pagliericcio, una sorta di materasso costituito da un telo di canapa e riempito con fieno o fogliame di latifoglia.

D. Com gnel fato un cadon?

R. Alora s fašee i trave in pes tipo tenda, a po s giavaa la scortha col suibal da la taia ch’ne n avee rami, ch’ne n avee spini parché s no se šbušaa. Alora se taiaa via un colp seura co la manera e po dopo s tacaa con s tu suibal u calc ota anch’con ramo, un ramo n gher piegheu, s fašee la punta; s giraa la taia, dopu s piegaa su e dopu s portaa e s destiraa fora seura alolo, fresa. Dea sempr le pianti ch’n avee spini; non cadù al prim metro, parché la scortha era dura e se spacaa, can ch’era n gher in su. S fašee su sto cašon, ogni un avee un metru, un pal par parti, dopo la dasa soti a fei la daga, ma nient fion parché al fion fašee ciapà i pdoi. Dormii dal bandi e sul medu fašee al fogo dinthi dubaso. Da mangé era na cušinuta d fora sempar fat cu li scorthi. Avone na cuerta u deui seura. S era d istiadi n era mal, ma can ch’era n invern freido com can ch’saron su a Cašera d Rin Freidu, là sul siolo, na cuerta sot sul siolo e una o deu seura, pte su calc giacheton seura e là t dormii; ma s avee vint ani![34]

Terminata la giornata di lavoro i boscaioli facevano ritorno al cašon, raccogliendo durante il tragitto della legna secca da utilizzare per accendere il fuoco, fogo/fuó/fuoc/foc, necessario sia per cucinare, sia per scaldare le serate fredde ed umide dei boschi di alta montagna. Per proteggersi dal freddo notturno ognuno si portava da casa due, tre coperte di lana, cuerte; spesso gli uomini dormivano senza togliersi gli abiti se non nel caso fossero stati bagnati dalla pioggia, piova/pioa, eventualità questa non molto rara, visto che le giornate di lavoro primaverili ed autunnali erano sovente interrotte a causa di tale evento meteorologico. Quando iniziava a piovere, i boscaioli erano costretti, loro malgrado, a ripararsi sotto gli alberi più grossi e densi di rami, dove le gocce d’acqua penetravano difficilmente. Lì accendevano il fuoco e aspettavano che spiovesse. Se il brutto tempo perdurava, facevano ritorno alle proprie case o al bivacco, consapevoli di aver perso in parte, o interamente, la giornata di lavoro. La consolazione veniva da un piatto caldo di minestra, da un buon bicchiere di vino e dalla compagnia dell’immancabile fuoco, sempre presente nella vita delle genti di montagna. Dopo cena, spesso, i più anziani raccontavano vicende di vita passata, ricche di particolari e di aneddoti più o meno veritieri, attirando l’attenzione dei più giovani con qualche digressione sulle proprie esperienze con le donne o su cupe vicende accadute nei paesi limitrofi che consolidavano la certezza della presenza delle anime dei morti.

D. Col piovea se se tiraa a sosta?

R. Sì, parché canche t es bagnà no te laore pì polito, e alora se vardava puoce gothe. Eh l era poben Lorentho che l aea n fià de mania de sta sot, ma noi se ndiane e alora l se ndia anca el; co t es bagnà no te stae pì ben e po, l é stagiogn che l é anca fredat. Come anca in setenber così inte l bosc, no l é l sol che bat, alora bišogna sta atenti de no se ciapa fret e se stenta laurà daspò.

D. Se se tiraa sota n peth?

R. Sì, sì, se se tiraa sota n peth se vardaa chi pì granc’, chi pì granc’ che i aea pì ram, così e la se staa a sosta n fià, se se metea su la giacheta e se stea là così, se inpithaa fuoc.

D. L fuoc se l inpithaelo sol par sià la polenta o in chi dì che l era maltemp?

R. Anca in chi dì che l era maltemp. No l era poben valgugn, magari de chi matinieri che ruaa sul laoro, capiseto, eh par la conpagnia, l fuoc fa conpagnia insoma vera, e alora i inpithaa fuoc. Sai…, sai co rueane noi che…, ciò noi partiane ca fora chi da inte i era pì comodi, vera, e alora rueane là, ciateane l fuoc, ciapeane na bela calda e dopo se tacaa a laurà.[35]

Nelle giornate di pioggia i boscaioli dedicavano molto tempo a riordinare ed affilare i propri attrezzi di lavoro, atrethe/arte, che dovevano essere sempre perfettamente efficienti. Nel rimanente tempo libero erano i giochi di società quali le carte e la morra ad attrarre la loro attenzione, con sfide che duravano anche diverse ore.

Le serate in compagnia, le fatiche comuni, le difficoltà del lavoro, la convivenza in spazi ristretti, la consapevolezza di un bisogno reciproco di conforto e familiarità, creavano le basi per l’instaurarsi di rapporti di stima, rispetto e profonda amicizia, che spesso perduravano per il resto della vita.

Note a “La giornata tipica del boscaiolo.”

[33] F. B., anni 74, ex boscaiolo, Santo Stefano di Cadore, 13 aprile 1999.

    D. Quando lavoravate nel bosco restavate fuori casa tutto il giorno. Se la sente di raccontare com’era una giornata tipica?

    R. Dormivamo lì in Casera Antola (Val Visdende)… La sveglia era alle cinque del mattino, si partiva alle sei, facevamo otto ore di lavoro e si ritornava in Casera alle sei, sei e mezza di sera… Si iniziava il lavoro alle otto, alle nove e mezza si faceva una sosta per mangiare un panino e dopo lavoravamo fino a mezzogiorno, quando la polenta era pronta. Avevamo un’ora di sosta per il pranzo… Alla sera nascondevamo gli attrezzi di lavoro sotto gli alberi, perchè in quegli anni nessuno li rubava. Durante le giornate piovose si rimaneva tutto il tempo in magazzino. Si lavorava fino al sabato alle tre del pomeriggio e scendevamo a valle con le biciclette senza freni, con una tavoletta di legno appoggiata sul pedale, che veniva schiacciata verso il terreno al momento di frenare. Si ritornava in Val Visdende il lunedì mattina. Un anno eravamo in quaranta, cinquanta boscaioli. C’era molta miseria e tutti gli uomini facevano i boscaioli anche se non erano dei veri boscaioli ma ugualmente lavoravano nel bosco ad allestire i tronchi.[torna su]

[34] C. D. M., anni 70, ex boscaiolo, Padola di Comelico Superiore, 21 maggio 1999.

    D. Come veniva costruito la baracca?

    R. Per costruirlo si utilizzavano delle travi tipo tenda, poi si toglieva la corteccia ad un albero per mezzo del “suibal” (attrezzo usato per la scortecciatura), un albero privo di rami altrimenti la corteccia sarebbe risultata bucata. Sul tronco si praticava un taglio longitudinale con la scure e poi con questo ferro o, spesso anche con un ramo un po’ piegato al quale si faceva la punta, si toglieva la corteccia; si girava il tronco, si finiva di scortecciare e si stendeva subito la corteccia sopra le travi. Si utilizzavano sempre alberi privi di rami o residui di rami; non si utilizzava la corteccia del tronco basale più grosso, perché era dura e si rompeva facilmente, ma quella un po’ più in alto. Si costruiva questo bivacco e tutti aveva un metro di spazio a disposizione delimitato da due pali; sul pavimento si mettevano delle frasche d’abete come giaciglio, ma niente fieno in quanto era portatore di pidocchi. Si dormiva ai lati del bivacco mentre al centro, sul pavimento, si faceva il fuoco. Per cucinare si costruiva una piccola tettoia all’esterno sempre con la corteccia. Ci coprivamo con una o due coperte. In estate non era male, ma quando c’era un inverno freddo come quell’anno su a Casera di Rin Freddo, quando ci toccò dormire sul pavimento di legno con una coperta sotto, che fungeva da materasso e una o due sopra, con in più qualche pastrano, allora non era così piacevole; ma avevamo vent’anni![torna su]

[35] G. C., anni 80, ex boscaiolo, Selva di Cadore, 12 marzo 1999.

    D. Quando pioveva vi riparavate?

    R. Sì, perché quando si hanno gli indumenti bagnati non si lavora più bene, alcune gocce e poi ci si riparava. In verità c’era Lorenzo che aveva la mania di lavorare anche sotto la pioggia, ma noi andavamo a ripararci così abbandonava il lavoro pure lui; insomma quando si hanno gli indumenti bagnati non ci si sente a proprio agio, inoltre ci sono stagioni in qui fa anche freddo. A settembre, nel bosco, il sole non penetra, pertanto bisogna fare attenzione a non prendere freddo in quanto diventa più difficoltoso lavorare.

    D. Ci si riparava sotto un abete?

    R. Sì, sì, ci riparavamo sotto un abete fra i più grandi, perché avevano più rami, ci si copriva con la giacca, si accendeva un fuoco e si rimaneva li.

    D. Il fuoco lo si accendeva solo per preparare la polenta o anche in quelle giornate di maltempo?

    R. Anche in quei giorni di maltempo. Beh! Veramente c’era qualcuno mattiniero, che arrivava sul lavoro presto ed anche per compagnia lo si accendeva, in quanto il fuoco fa compagnia. Ricordo che quando arrivavamo noi, che partivamo da Selva ed eravamo più distanti trovavamo il fuoco acceso, ci riscaldavamo ben bene ed iniziavamo a lavorare.[torna su]