Il mangiare e il vestire

L’alimento comune in tutti i cantieri boschivi era la polenta, polenta, cotta sul posto in grandi paioli di rame, ciodrutho/ciaudrin/caliera, che il cuoco di turno, cogo, si portava da casa. L’addetto alla cucina era spesso un ragazzo, bòcia/riedo, incaricato dell’approvvigionamento della legna per accendere il fuoco e dell’acqua necessaria per la preparazione della pietanza. Dove l’acqua non era reperibile nelle vicinanze, ogni uomo se ne portava un certo quantitativo da casa.

Il paiolo veniva appeso ad un basrone opportunamente tagliato, musa, conficcato obliqualente nel terreno vicino ad un rudimentale focolare costituito da sassi, disposti a ferro di cavallo per permettere l’introduzione della legna nell’apertura appositamente creata.

Di solito la farina veniva acquistata in comune ma, durante il periodo del fascismo, quando cioè per l’approvvigionamento dei viveri era necessaria la “tessera”, che dava il diritto ad un certo quantitativo pro capite di alimenti, ognuno si portava la propria razione giornaliera di farina di frumento (circa tre etti), che il cuoco poi univa nel medesimo paiolo. La polenta veniva cotta per circa un’ora, rimescolata più volte per impedire che si bruciasse o che si formassero dei grumi. Quand’era pronta il cuoco gridava: dura, invitando i boscaioli ad avvicinarsi per il pranzo, marenda/disnà. La sua riuscita dipendeva, ovviamente, dall’attitudine del cuoco, ma nondimeno dal numero di uomini che la dovevano mangiare. In certi cantieri boschivi vi erano anche quaranta boscaioli che facevano la pausa pranzo alla medesima ora e per i quali spesso il convitto non era una vera gioia, costretti a mangiare la polenta troppo cruda o troppo cotta, molle o dura come un sasso. Comunque la fame c’era ed era tanta, tanta che difficilmente nel pentolone restava qualcosa.

D. Magnao che?

R. La prima volta che son dut n tel bosc, duncue, avei diciasete ani, mi fei el bocia; el bocia el portea l acua, el fea la polenta. Co l era le undes dei a mete su a fà la polenta. Del cuarantasete, ognun portea el so sachetin de farina… Te butei inte en cin de un, en cin de n altro e n cin de st altro a fà la polenta, parché la farina la era anca n cin co la tesera chi ani là. Ognun portea en cin de formai, companadego… Cande che avei fat la polenta, alora ciamei: “dura”. Dura vol dì: pronta la polenta, alora i venia e i magnea. Prima de fà la polenta, prima de le undeše, me tocava parecià la cušina con doi sas, co n pal, t avei da mete l caudrin e da matina me tocava portà su la baritha de l acua, se l acua là no ghe n era vithin.

D. Polenta tuti i dì fiao.

R. Semper polenta, mai pastasuta, polenta semper…[36]

Come companatico, companadgo/companašego/companadego, ognuno si portava da casa ciò di cui disponeva, che per la maggior parte equivaleva al pezzo di formaggio di latteria, formài, prodotto dal latte delle proprie vacche. I più facoltosi potevano permettersi il lusso di pasteggiare con il salame, salame, le salsicce, luganeghe, la pancetta, pantheta, o con uno degli altri prodotti caserecci ricavabili dall’uccisione del maiale, abilmente preparati ed affumicati seguendo vecchi segreti tramandati da padre in figlio.

Assieme al cibo, qualche volta, c’era la possibilità di bere uno, due bicchieri di vino, vin, anche se durante il pranzo la bevanda più consumata era l’acqua, aga/aiva, riservando il vino per il pasto serale che prevedeva quasi sempre il minestrone con fagioli, minestron, a volte insaporito con un osso di maiale affumicato.

Al mattino era consuetudine fare colazione semplicemente bevendo del caffè accompagnato tutt’al più da un pezzo di pane e formaggio, seduti intorno al fuoco per riscaldarsi dal freddo patito durante la nottata. Quando il pernottamento avveniva in prossimità delle malghe caricate per l’alpeggio, c’era la possibilità di acquistare del latte fresco, che veniva consumato assieme al caffè e al pane, pan, spesso raffermo ed immangiabile, soprattutto se la permanenza fuori casa durava per molti giorni, tanto che qualcuno lo sostituiva con un pezzo di polenta semmai avanzata dal giorno prima.

D. Che mangiaa?

R. S fadè la marenda sul posto, gne su al cogo, era al cogo aposta, tle su la ciodiera, e polenta, polenta e formai, ne n era autro là, ne n era toc’… e dì a portà aga co la boracia inera i boce ch’pasea da duce i operai a dà aga. Dadsera s gnea dù in Casera Antola fadea minestra, fadea pasta suta. Era chi periodi ch’era bon e chi periodi ch’era scarso… Par ešempio formai te tolea un chilo a la stomana ilò in magašin, t avee da fei na stomana. Te tolea su al to bocon, t portea su e mangea ped la polenta. Ogn un s portea al so. Chi ch’volea salame tolea salame, chi ch’volea pantheta tolea pantheta, ma i pì porete polenta e formai, parchè al salame costea masa. [37]

Per quel che riguarda gli indumenti utilizzati per il lavoro, non vi erano delle divise apposite, ma ognuno si metteva quello di cui disponeva; spesso erano abiti malconci, più volte rammendati e rattoppati dalle donne di casa, carichi di resina tanto da assumere colorazioni e consistenze diverse da quelle originarie. I pantaloni, braghe/bragheses, di tela erano i più utilizzati in quanto assorbivano meno la resina ed erano più resistenti alle abrasioni e agli strappi. In inverno erano preferiti i calzoni di lana alla zuava, sopra ai quali venivano indossate le ghette di panno di lana follata, alte fino al ginocchio e legate sotto gli scarponi con delle corde di canapa, calthogn/calthoi/ciauthogn. Esse, oltre ad avere una funzione impermeabile, servivano anche a riparate le estremità dal freddo e da eventuali contusioni provocate dal contatto con i tronchi. In estate venivano indossate delle camice di tela a maniche lunghe, ciamise/ciamede, sostituite in inverno con quelle più pesanti di lana. Durante i mesi freddi tutti disponevano di maglioni di lana fatti a mano e di giacche, iachete/giachete, che venivano tolte durante il lavoro ed indossate nelle pause o al termine dell’attività lavorativa. Ai piedi, sopra delle robuste calze di lana grezza (fatte a mano), ciauze, tutti portavano gli scarponi o delle scarpe pesanti con la suola in legno e tomaia in pelle, entrambe provviste di ferri a quattro punte posizionati sotto il tacco, scarp da fer. In alternativa erano utilizzati dei ramponi a sei o otto punte, grife/grif, agganciati sotto gli scarponi mediante delle corde di canapa. In inverno, tali accorgimenti erano indispensabili per poter camminare con una certa sicurezza lungo i sentieri ghiacciati percorsi più volte al giorno per il recupero del legname, o in tutte quelle situazioni pericolose dove era necessario salire sopra i tronchi, come ad esempio durante il loro accatastamento. Un cappello malandato, ciaplat/ciapelato/robul, o un berretto di lana, bareta, completavano l’abbigliamento dei boscaioli, non molto diverso da quello di un qualsiasi lavorante costretto ad un mestiere di fatica.

D. Come se se vestielo?

R. Eh masarie n fia strathote, se vardaa che fose stat roba de tela, de tela parché intant chi che scorthaa, vera, i se inpenia de raša, parché le la buta fora insoma co te le scorthe soraldut co le va in amor da dainsuda, che le va in amor, te te le s inpiastra e le deventa dure come n bachet e se doraa braghe strathe de tela pì che auter.

D. Longe o fin sui danogie?

R. Sì, sì, longe, no a la zuava, a la zuava n duoreane puoce ote parché se se sporciaa anca le ciauthe a cošà, e po anca da la front e anca tante robe insoma.

D. Braghe lognie alora?

R. Sì, braghe longie e picheauter de tela parché anca i ram co te camine, i taca inte manco fathile, se l era chele de stofa l era fathile se le sbregà capisto, però se doraa chele insoma. Come giacheta l era istes parché la giacheta no se la doraa mai a laurà.

D. Ciamiše, se restaa in ciamiša?

R. Ciamiše, ciamiše insoma eco, le ciamiše le se sbregaa poben co te te ciapaee inte coša vosto.

D. Le scarpe?

R. Scarpe da fer.

D. Semper in cualuncue stagion?

R. In cualuncue stagion scarpe da fer, inte l bosc te toca dorà le scarpe da fer, parché t as da montà su na pianta, t as da montà su na taia, é tante le robe insoma eco, l era scarpe da fer. L é stat dopo che à scomenthà magari valgugn co le scarpe da tac e così però…, no i é tant indicade, parché se le bagnà te vade coi piei par aria, capiseto, invethe co le scarpe da fer se imponta i fer e te staghe in pe insoma eco.

D. Su la testa calche rabul?

R. Sì, sì, baretate de chele vegie.[38]


Note a “Il mangiare e il vestire.”

[36] G. A., anni 69, ex boscaiolo e lavorante in segheria, Mas di Vallada, 24 febbraio 1999.

    D. Cosa mangiavate e come eravate vestiti.

    R. Quando ho iniziato l’attività di boscaiolo, dunque, avevo diciassette anni, ero il più giovane, il più giovane portava l’acqua e faceva la polenta. Alle undici preparavo per cuocere la polenta. Nel quarantasette, ogni boscaiolo portava il suo sacchettino di farina… Per fare la polenta utilizzavi la farina di tutti; la farina in quegli anni veniva comperata utilizzando la tessera. Ognuno portava un po’ di formaggio, come companatico… Quando la polenta era cotta allora chiamavo: “dura”. Dura significa che la polenta è pronta, allora i boscaioli si avvicinavano per mangiare. Prima di fare la polenta, prima delle undici, preparavo la cucina con due sassi e un palo ove appendere il paiolo; se non c’era acqua nelle vicinanze occorreva portarla da casa utilizzando un barilotto di legno.

    D. Mangiavate tutti i giorni polenta.

    R. Sempre polenta, mai pastasciutta, polenta sempre…[torna su]

[37] F. B., anni 74, ex boscaiolo, Santo Stefano di Cadore, 13 aprile 1999.

    D. Cosa mangiavate?

    R. Si pranzava nel bosco, veniva un cuoco della ditta, portava il paiolo e ci preparava la polente, polenta e formaggio, non c’era altro da mangiare, non c’era lo spezzatino… Un ragazzo portava l’acqua da bere in una borraccia distribuendola a tutti gli operai. Di sera scendevamo in Casera Antola (Val Visdende) dove il cuoco ci preparava la minestra, oppure la pasta. C’erano dei periodi in cui si mangiava bene e altri in cui il cibo scarseggiava… Per esempio prendevi un chilo di formaggio in magazzino e ti doveva bastare per tutta la settimana. Prendevi il tuo pezzo, te lo portavi nel bosco e lo mangiavi con la polenta. Ognuno si portava il proprio companatico. Chi preferiva il salame prendeva il salame, chi preferiva la pancetta prendeva la pancetta, ma i più poveri mangiavano polenta e formaggio, perché il salame costava troppo. [torna su]

[38] G. C., anni 80, ex boscaiolo, Selva di Cadore, 12 marzo 1999.

    D. Come ci si vestiva?

    R. Abiti andanti, preferibilmente quelli in tela in quanto assorbono meno la resina che esce dopo aver tolto la corteccia ad un tronco. Questa è particolarmente abbondante in primavera, quando le piante sono in piena attività vegetativa, e fa divenire l’indumento rigido come un bastone.

    D. Lunghe sino al ginocchio?

    R. Sì, sì, lunghe, non alla “zuava”, al ginocchio le portavamo poche volte in quanto i calzettoni erano poco pratici, si riempivano di aghi ecc.

    D. Pantaloni lunghi dunque?

    R. Certamente, e soprattutto di tela in quanto anche i rami scivolano via più facilmente, se invece erano di stoffa, era più facile romperle. Come giacca era indifferente in quanto lavorando non la s’indossava.

    D. Camicie, si rimaneva in camicia?

    R. Camicie, sicuramente camicie, anche se succedeva spesso impigliandosi di strapparle.

    D. Come scarpe?

    R. Scarpe con i ferri.

    D. Sempre in qualunque stagione?

    R. In qualunque stagione scarpe con i ramponi, nel bosco è quasi d’obbligo usare scarpe con i ferri, perché servono quando si sale su un albero (abbattuto), su un tronco scortecciato ed altre cose, insoma, si usavano le scarpe con i ferri. Successivamente qualcuno ha iniziato ad usare scarpe senza i ferri però non sono molto appropriate, soprattutto se il terreno è bagnato si va sovente con i piedi all’aria, comprendi, invece con le scarpe ferrate si piantano i ferri e si rimane in piedi, insomma.

    D. Sul capo qualche cappellaccio?

    R. Sì, sì, berretti vecchi.[torna su]