Introduzione

L’area geografica presa in esame per questa ricerca interessa la parte nord-orientale e buona parte di quella nord-occidentale della Provincia di Belluno, ovvero pressochè tutta la zona ladina della Provincia, comprendente i territori del Cadore, Zoldo, Agordino e Ampezzo. In particolare sono stati interessati: il Comelico, il Centro Cadore[1], la Valle del Boite con i comuni di S. Vito, Borca, Vodo e Valle, l’Agordino con i comuni di Rivamonte (Conca Agordina), Falcade, Canale d’Agordo e Vallada (Valle del Biois), Alleghe e Selva di Cadore (Alto Cordevole) ed infine Zoldo.

Il Cadore[2] è una territorio montuoso costituito dall’alto bacino del fiume Piave, e dai suoi principali affluenti: Padola, Ansiei, Piova, Molinà e Boite. Storicamente rimane escluso il paese di Sappada, mentre vi fa parte quello di Selva, situato nel bacino del torrente Cordevole. Geograficamente può essere diviso in tre grandi zone: il Comelico, il Centro Cadore e la Valle del Boite, che, vista la vastità del territorio, vengono singolarmente inquadrate.

Il Comelico costituisce l’estremo lembo settentrionale della Provincia di Belluno. Centro della vallata e sede municipale è Santo Stefano, che con i suoi 907 metri s.l.m. è il punto più basso del comprensorio. A sud dell’abitato il torrente Padola si congiunge al fiume Piave. Le valli scavate da questi due corsi d’acqua danno origine alla tipica forma biforcata che caratterizza la zona. Risalendo il corso del Piave (verso nord-est), si giunge nel territorio amministrativo del Comune di San Pietro che confina con la vicina Sappada di idioma germanico.

La valle del torrente Padola, che da Santo Stefano sale verso nord-ovest, ospita i comuni di San Nicolò e di Comelico Superiore, quest’ultimo con sede amministrativa a Candide. Una posizione alquanto defilata è quella di Danta, situata al margine di un altipiano sulla destra orografica della vallata, che con i suoi 1397 metri s.l.m. è il paese (sede municipale) più alto del Comelico.

La Val Comelico è circondata dalle montagne che ne perimetrano l’intero territorio, dandole le caratteristiche geografiche di una valle separata e difficilmente accessibile, almeno fino al 1986, data d’inaugurazione del tunnel lungo più di quattro chilometri che la collega direttamente al Centro Cadore. Prima di questo evento chi voleva entrare nella verde valle doveva percorrere la famigerata “Strada della Valle” (aperta nel 1840), che seguiva il corso del fiume Piave insinuandosi in un’angusta gola dalle pareti strapiombanti, oppure attraverso uno dei quattro valichi: Monte Croce (verso la Val Pusteria), Cima Sappada (verso la Carnia), Razzo (verso la Carnia ed il Cadore) e Zovo-Sant’Antonio (verso il Centro Cadore).

A nord-ovest, si eleva il grandioso gruppo del Popera che separa il Comelico dalla Val d’Ansiei e dalla Val Pusteria. A nord si sussegue, come un enorme ventaglio prevalentemente erboso, la frastagliata Cresta di Confine che funge da Confine di Stato tra Italia e Austria, nel tratto che va dai Frugnoni al Passo dell’Oregone, poco a nord del Monte Peralba. Insieme al massiccio castello del Peralba e alla cresta di confine, il Monte Rinaldo fa da cornice (verso est) alla spettacolare Val Visdende, una valle di origine glaciale ricchissima di boschi di abete rosso e bianco. A sud-est il gruppo delle Tre Terze, a sud quello dei Brentoni e a sud-ovest il Monte Crissin dividono il Comelico dalla Carnia e dal Centro Cadore.

L’economia del Comelico non ha mai avuto una particolare connotazione. Importante fu nel passato l’allevamento del bestiame bovino che interessava quasi tutte le famiglie. Ogni paese aveva una latteria turnaria con produzioni ragguardevoli. Oggi sono rimaste ben poche le stalle funzionanti e sono quasi scomparse le latterie. La terra ha sempre reso poco. Viene ancora praticata la fienagione mentre la coltura dell’orzo, dell’avena e del lino è del tutto scomparsa. In passato ha avuto notevole importanza l’estrazione mineraria nelle viscere del monte Terza Piccola, dov’è stata attiva fino al 1986 la miniera di Salafossa. Data la grande ricchezza di boschi, la gestione delle risorse forestali è sempre stata privilegiata e attiva, specialmente del taglio e nella trasformazione in segati. Negli ultimi anni si è potuto registrare un discreto flusso turistico ed una crescente attività imprenditoriale nel campo dell’occhialeria. Importante è anche la realtà dell’antiquariato sorta da qualche decennio nel Comune di Comelico Superiore, dove nelle botteghe ben fornite si possono trovare pezzi di grande rarità e pregio.

Il Centro Cadore è costituito da sette comuni che occupano nel loro insieme un territorio molto vasto. Quattro di essi: Pieve, Calalzo, Domegge e Lozzo (Medio Cadore) si sviluppano perlopiù attorno all’invaso artificiale creato dall’interruzione del corso del fiume Piave mediante la diga di Sottocastello. Gli insediamenti abitativi si trovano sulla destra orografica dove una minore ripidezza del versante ne ha reso possibile lo sviluppo.

I Comuni di Vigo e Lorenzago (Oltrepiave) si trovano più a nord, sulla sinistra orografica del Piave, in prossimità delle incisioni vallive creare dai torrenti Piova e Mauria. I valichi di Razzo e Mauria collegano il Centro Cadore con la vicina Carnia.

Lungo il versante sinistro della Valle d’Ansiei si sviluppa il Comune di Auronzo. L’abitato si specchia sulle acque del bacino artificiale di Santa Caterina, nato negli anni ’30 e alimentato dal torrente Ansiei. Il grosso del paese si concentra nella sezione inferiore del bacino, ad una quota non superiore ai 940 metri s.l.m.. Risalendo il corso del torrente si oltrepassa la splendida Foresta Demaniale di Somadida e si giunge a Misurina, vera perla delle Dolomiti, che con i suoi 1756 metri d’altitudine è l’abitato più in quota di tutta la Provincia di Belluno. Misurina rappresenta il valico che congiunge il Cadore con la Val Pusteria, mentre dal vicino Passo Tre Croci si può scendere a Cortina.

La valle dell’Ansiei è circondata da cime svettanti oltre i 3000 metri, che in passato fecero la storia dell’alpinismo Dolomitico, quali: il gruppo del Cristallo, del Sorapis, delle Marmarole. Più a nord si trovano le Tre Cime di Lavaredo, i Cadini di Misurina, l’Aiarnola. Entrando nella valle del Piave s’incontrano il gruppo dei Brentoni e del Cridola. Più a sud, a coronamento del bacino del Centro Cadore, vi sono: la Cima Monfalcon e gli Spalti di Toro, che fungono da spartiacque con la Val Cellina e il fiume Tagliamento. A nord ovest spicca l’Antelao, il “tetto del Cadore”, che con i suoi 3264 metri s.l.m. è la montagna più alta del Cadore. Il gruppo delle Marmarole completa, verso nord, la cornice montagnosa.

L’economia tradizionale del Centro Cadore era quella tipica delle zone di montagna: lo sfruttamento del bosco, l’agricoltura e l’allevamento. In particolare la selvicoltura ha avuto un ruolo importante nell’ultimo secolo non tanto per il diretto utilizzo dei boschi, quanto per lo sviluppo di un discreto numero di segherie, accentrate soprattutto nelle zone di Cima Gogna (nel comune di Auronzo), Lozzo, Calalzo e Tai (nel comune di Pieve), che tutt’oggi impiegano diversa manodopera. L’agricoltura ha sempre rappresentato un’attività complementare di scarsa rilevanza a differenza dell’allevamento del bestiame, importantissima fonte di reddito e occupazione fino agli inizi del 1900. Ma le attività legate alla terra ben presto hanno ceduto il passo ad una progressiva industrializzazione volta alla produzione di un prodotto simbolo di questa vallata: l’occhiale. Le occhialerie Cadorine, anche se negli ultimi anni hanno risentito notevolmente della crisi di settore, occupano gran parte della manodopera locale e di quella delle valli limitrofe, comprese alcune della vicina Carnia. Importante è anche il settore turistico, sviluppato però quasi esclusivamente nella Val d’Ansiei, con un discreto numero di strutture ricettive e di servizi extra-alberghieri.

Il torrente Boite, da cui prende il nome l’omonima valle, nasce nel territorio comunale di Cortina d’Ampezzo e incontra le acque del Piave a Perarolo di Cadore. Valle è il primo dei sei comuni che caratterizzano questa vallata. Risalendo il torrente troviamo Cibiana, paese dei murales, il comune con il minor numero di abitanti, unico ad essere situato interamente sulla destra orografica dell’incisione valliva e collegato tramite il passo omonimo alla Val Zoldana. A questo punto la valle assume una conformazione ad orrido formando la così detta “chiusa”. Questo sbarramento naturale in passato divideva fisicamente i due precedenti comuni da quelli di Vodo, Borca e San Vito, detti per l’appunto dell'”oltrechiusa”. Da qui in poi la valle si allarga maggiormente e in rapida successione si incontrano i tre comuni anzidetti, con San Vito a chiudere il territorio del Cadore. In fondo alla valle, in un’ampia conca circondata dalle montagne, è adagiata la “regina” delle Dolomiti, Cortina d’Ampezzo.

Imponenti sono le vette che attorniano questi abitati: verso nord-est l’Antelao, la Croda Marcora, i gruppi del Sorapis, del Faloria, del Cristallo, del Pomagagnon. A nord-ovest fa bella mostra di sè il maestoso gruppo delle Tofane, mentre verso sud-ovest s’innalza bellissimo il Pelmo (soprannominato il “trono di Dio”) e più in là il monte Rite.

Alquanto eterogenea appare la situazione economica della vallata, che risente notevolmente dell’influenza da una parte del polo industriale del Centro Cadore e dall’altra della presenza di un prestigioso centro turistico qual è Cortina. Valle e Cibiana sono, infatti, maggiormente legati alla produzione di occhiali, con la presenza sul proprio territorio di un numero discreto di piccole fabbriche, mentre i paesi dell'”oltrechiusa” forniscono operatori specializzati nel settore turistico e nei servizi collaterali. Sono presenti anche alcuni impianti di risalita e un discreto numero di strutture alberghiere. Si discosta da questa realtà Vodo, paese di gelatieri, che per buona parte dell’anno vivono e lavorano in paesi del centro Europa. In passato lo sfruttamento dei boschi fu un’importante fonte di reddito per questa vallata, dovuto sia alla vendita del legname “tondo”, sia ai prodotti lavorati dalle numerosissime segherie sorte lungo il corso del torrente Boite. Proprio grazie alla sapiente arte della lavorazione del legno i carpentieri dell'”oltrechiusa” si fecero conoscere in centro Europa, dove tra il 1815 e il 1865 furono chiamati ad erigere numerosi ponti ed il cui capolavoro fu il grandioso manufatto costruito sul Danubio, che collegò Buda a Pest nel cuore della capitale ungherese (distrutto dai bombardamenti aerei durante la seconda guerra mondiale). L’attività principale risultava comunque essere l’allevamento del bestiame bovino e in misura minore di quello ovino e caprino. Un’attività artigianale tipica, sviluppatasi a Cibiana, era quella della produzione di chiavi forgiate a mano, che nel 1875 contava una produzione annua di circa 70 mila chiavi.

L’Agordino comprende un’area sviluppata in senso longitudinale, situata a nord-ovest della provincia di Belluno. La valle principale è quella del Cordevole che prende il nome dall’omonimo torrente, principale affluente del fiume Piave. Esso nasce presso il passo Pordoi nel comune di Livinallongo del Col di Lana e sfocia in Val Belluna, nei pressi di Bribano (comune di Sedico).

Il comprensorio, di cui fanno parte 16 comuni, può essere suddiviso in tre grandi zone: la Conca Agordina, la Valle del Biois e, nella parte alta, l’Alto Cordevole. Agordo si trova ad una quota di 611 metri s.l.m. e dà il nome all’intero comprensorio. È il principale comune della Conca Agordina sia per numero di abitanti, sia per la concentrazione di servizi pubblici presenti. Gli altri comuni della Conca sono: verso sud-ovest Voltago, Rivamonte e Gosaldo, dal quale, attraverso il valico del Passo Cereda, si entra nel territorio di Primiero, a nord-ovest Taibon, ed infine, ad est, La Valle. Di qui, attraverso il Passo Duran, si giunge nello Zoldano.

Dieci chilometri più a nord-ovest del capoluogo, dopo la chiusa di Listolade, il Cordevole riceve le acque del torrente Biois, suo affluente di destra, all’altezza dell’abitato di Cencenighe, primo comune della Val Biois. Salendo verso ovest, lungo l’incisione valliva scavata dalle acque del torrente, s’incontrano i comuni di Vallada, Canale e Falcade. Da quest’ultimo, posto in un’ampia conca prativa, vi sono ben due collegamenti con il Trentino: il Passo Valles e il Passo S. Pellegrino. Per legami storico-religiosi, ed oggi anche turistici, rientra in questa zona anche il comune di San Tomaso, situato poco più a nord di Cencenighe lungo la Valle del Cordevole.

Il primo dei comuni dell’Alto Cordevole è Alleghe, ubicato sulla riva sinistra dell’omonimo lago naturale, formatosi nel 1771 dopo il crollo di parte del Monte Piz, che interruppe il corso del Cordevole. Al di là del lago, verso la Marmolada, si trova il comune di Rocca Pietore, dal quale, salendo lungo la strada che attraversa la frazione di Malga Ciapela, si può transitare in Trentino attraverso il Passo Fedaia. Proseguendo verso nord, lungo la valle del Cordevole, s’incontra il comune di Livinallongo del Col di Lana con sede amministrativa a Pieve. Arabba, posta a 1602 metri s.l.m., è una delle frazioni più in quota del comune e dell’intero comprensorio, nonché importante centro turistico eccellentemente attrezzato per la pratica degli sport invernali. Da qui attraverso il Passo Pordoi si passa in Val di Fassa (Provincia di Trento), mentre dal Passo Campolongo si giunge in Val Badia (Provincia di Bolzano). Da Pieve di Livinallongo, salendo verso nord-est s’incontra il valico del Passo Falzarego dal quale si può scendere a Cortina d’Ampezzo, oppure, salendo ancora e attraversando il Passo Valparola, in Val Badia. A est si trova il piccolo comune di Colle Santa Lucia, dal quale si può ammirare uno dei più affascinanti scenari Dolomitici. I territori di questi due comuni appartennero, sino al 1918, all’Impero austriaco che, intuendone l’importanza strategica per i propri collegamenti, costruì la strada delle Dolomiti, approvata dalla Dieta del Tirolo nel 1897 e ultimata nel 1906. Anche ecclesiasticamente queste terre fecero parte della Diocesi di Bressanone sino al 1964, per passare poi a quella di Belluno.

Spostandosi da Colle S. Lucia verso est si entra in Val Fiorentina (che prende il nome dall’omonimo torrente); subito s’incontra il paese di Selva di Cadore, con le sue caratteristiche “vile” o frazioni. Il Comune di Selva di Cadore ha sempre fatto parte del Cadore, sia ecclesiasticamente che amministrativamente, e solo negli ultimi tempi ha cominciato a gravitare verso Agordo. L’origine dei primi abitati stabilitivisi risale al secolo XI, spinti probabilmente dalla scoperta delle miniere di ferro, denominate del Fursil, nel comune di Colle S. Lucia, ed è strettamente legata a San Vito di Cadore, dalle cui Regole di Mondeval e Festornigo questi dipesero per molto tempo. La Forcella Forada rappresentò sempre la principale via di comunicazione tra la Val Fiorentina e la Val Boite, tra Selva e il resto del Cadore. Inoltre, valicando il Passo Staulanza, in fondo alla Val Fiorentina, si giunge nella valle di Zoldo, mentre si può scendere a Cortina attraversando a nord-est il Passo Giau.

Il comprensorio dell’Agordino è circondato da splendidi gruppi montuosi, cime famose in tutto il mondo, meta di innumerevoli alpinisti. Partendo da sud e girando in senso orario incontriamo i Monti del Sole, compresi del territorio del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi, il Monte Agner, il gruppo delle Pale di San Martino, della Marmolada, che con i suoi 3343 metri s.l.m. è la vetta più alta delle Dolomiti, del Sella, il maestoso Pelmo, il gruppo del Civetta, la Moiazza, le cime di San Sebastiano ed infine, a completare la cornice, il gruppo dello Schiara.

Un tempo la popolazione residente viveva, o meglio sopravviveva, in queste stupende, ma povere vallate, dedicandosi all’agricoltura, alla pastorizia, al taglio del legname e sfruttando i numerosi piccoli e medi giacimenti minerari presenti, nonché praticando, a partire da fine 1800, l’emigrazione sia stagionale che definitiva, verso paesi extra europei. Dalla fine del 1700 sino quasi ai nostri giorni, nella conca Agordina, ma in particolar modo nei comuni di Gosaldo, Rivamonte e Voltago, si sviluppò un’emigrazione temporanea dei “careghete” (fabbricanti di seggiole). Sino a circa il 1960 l’esodo interessò anche le donne, specialmente di giovane età, impiegate come tuttofare presso le ricche famiglie delle grandi città, oppure come braccianti agricole nelle valli limitrofe. Tra le miniere meritano un cenno quelle di ferro dette del Fursil, in comune di Colle S. Lucia, e di rame in Val Imperina nel comune di Rivamonte, entrambe in disuso. A seconda della quota e dell’esposizione, si coltivava poco granoturco, frumento, orzo, segale, lino, canapa, fava, patate… oltre a varie specie orticole. La fienagione veniva praticata sino oltre i 2.000 metri di quota. Si trattava di attività diffuse su ogni angolo di territorio disponibile, sfruttando anche i siti più remoti e disagevoli.

La storia economica dell’Agordino, o meglio l’ultimo capitolo, che rappresenta la realtà attuale, porta come data d’inizio gli anni sessanta, quando ebbero vita i primi impianti di risalita e le prime occhialerie. Nell’arco di quarant’anni la vallata ha conquistato una posizione di preminenza nell’assetto turistico e industriale del bellunese, con la presenza di numerose sciovie, molte delle quali dell’ultima generazione, campi di pattinaggio, piste per lo sci di fondo e per slittini presenti in tutto l’Alto Cordevole e nella valle del Biois, e l’espansione a livello mondiale del gruppo industriale Luxottica, che ha mosso i primi passi proprio ad Agordo e che qui mantiene ancora un grosso stabilimento. Grande è la presenza di attività ricettive, sia per la stagione invernale sia per quella estiva, e l’offerta di numerosi servizi turistici. Accanto ad un’evoluzione settoriale così forte, si è comunque mantenuta discreta la cura dell’ambiente, il taglio dell’erba e una significativa presenza di malghe monticate durante la stagione estiva, alcune delle quali forniscono servizi agrituristici.

Punto di giunzione tra il Cadore e la Valle del Cordevole è la valle di Zoldo, un comprensorio del tutto simile sia dal punto di vista ambientale sia da quello storico-culturale. Formata dal torrente Maè, affluente di destra del Piave, la valle di Zoldo è posta longitudinalmente a nord-ovest dell’abitato di Longarone dal quale, salendo lungo la tortuosa strada, dopo circa 17 chilometri si incontra Forno di Zoldo, il primo dei tre comuni che la costituiscono, posto alla quota di 810 metri s.l.m..Il suo nome prende origine dalla presenza, in passato, di numerosi forni fusori atti all’estrazione del ferro, nonché alla sua lavorazione per l’ottenimento dei più svariati attrezzi e materiali. Da qui, salendo verso nord e abbandonando le acque del torrente Maè, si giunge al piccolo comune di Zoppè, gravitante nello Zoldano ma appartenente al Cadore (da cui il nome Zoppè di Cadore). Proseguendo invece lungo la vallata principale si giunge nel comune di Zoldo Alto e da qui, attraverso la Forcella Staulanza, all’Alto Cordevole. Altri due valichi uniscono questa vallata con i comprensori limitrofi: il Passo Duran alla Conca Agordina e il Passo Cibiana alla Val Boite e quindi al Cadore.

La Valle è attorniata da imponenti vette quali la Moiazza, il gruppo del Civetta e il Pelmo che sovrastano gli abitati mostrando tutta la loro maestosità.

Terra di maestri gelatai, la valle di Zoldo si svuota per buona parte dell’anno, ripopolandosi nei mesi invernali, quando gli emigranti nei paesi del centro e nord Europa ritornano nei luoghi natii per il meritato periodo di ferie e per ritrovare la loro terra d’origine. Ma negli ultimi decenni la vallata si è fatta conoscere anche per gli innumerevoli impianti sciistici, serviti da modernissime sciovie che permettono un collegamento con Alleghe e Selva di Cadore, nell’Alto Cordevole, dando vita al comprensorio sciistico del Civetta, uno dei più interessanti del panorama dolomitico.

La vasta area presa in esame per questo lavoro, anche se presenta delle differenze storico-culturali tra zona e zona, mostra comunque svariati aspetti accomunanti.

Dal punto di vista territoriale e antropico è possibile individuare in tutti i quattro comprensori la medesima suddivisione in tre fasce paesaggistiche, nell’ambito delle quali le popolazioni locali hanno modellato il territorio in funzione delle proprie esigenze.

1) Nel fondovalle, generalmente su depositi alluvionali, si trovano i principali insediamenti abitativi. Spesso attorno al capoluogo si collocano numerosi piccoli centri abitati perlopiù abbarbicati sui versanti scoscesi delle vallate. Intorno ai paesi vi sono vaste superfici a prato, molte delle quali non vengono più falciate, dando al bosco la possibilità di ricolonizzare quelle zone che un tempo gli furono strappate con tanta fatica e determinazione, per potervi piantare quei pochi prodotti che una terra povera era capace di offrire. Molti campi un tempo coltivati a segale, orzo, frumento sono ridotti a prati incolti, dove l’erba secca crea pericolosissimi punti di partenza per gli incendi, che negli ultimi decenni interessano sempre più spesso le montagne bellunesi. Unici superstiti all’antico sfruttamento della terra, sono pochi appezzamenti coltivati a grano turco, qualche campo di patate e pochi orti in prossimità delle case.

In questa fascia sono presenti numerosissimi rustici in legno con tetto in “scandole” (assicelle in legno della lunghezza di circa un metro), m, un tempo utilizzati per lo stoccaggio del fieno e per la stabulazione del bestiame e oggi trasformati in baite o più spesso abbandonati e destinati ad un inesorabile crollo.

2) La zona intermedia è costituita prevalentemente dal bosco che occupa una fascia molto larga e in continua espansione sia verso l’alto, riacquistando un margine superiore tipico delle zone non antropizzate, sia verso il basso, con la colonizzazione dei prati presenti nelle immediate vicinanze. I boschi di questa fascia, che sovrastano direttamente i paesi, sono detti “boschi di protezione”, in quanto svolgono un’importante funzione di difesa dalle valanghe.

3) Al di sopra del bosco vi è la fascia delle praterie alpine, un tempo intensamente sfruttate sia per il pascolo del bestiame sia per il taglio dell’erba, che veniva stoccata in grossi covoni o all’interno delle tipiche baite in legno e recuperata durante l’inverno utilizzando le slitte da carico.

Dal punto di vista forestale la montagna bellunese, così come molte altre zone della cerchia alpina, può essere essenzialmente suddivisa in due grandi fasce altimetriche: il piano montano e il piano alpino. Il primo, costituito da piante d’alto fusto, si suddivide ulteriormente in inferiore e superiore; quest’ultimo si spinge fino al limite superiore del bosco, dove lascia il posto agli arbusti d’alta montagna, quali il pino mugo, barancio/mugo, e alle praterie alpine.

L’orizzonte montano inferiore è maggiormente caratterizzato dalla presenza delle latifoglie, tra le quali spicca il faggio, faghera/fagher, che cresce in boschi puri o misti con le conifere, in particolare con l’abete bianco, vedì/avedin/avedì/aveth, che presenta delle caratteristiche ecologiche simili, ma che si spinge anche nell’orizzonte montano superiore, occupando le posizioni umide sui fianchi dei monti dove spesso è consociato con l’abete rosso.

L’orizzonte montano superiore è contraddistinto soprattutto dall’abete rosso, detto anche peccio, peth/pthe/pethuó, diffuso ovunque dai 1000 ai 2000 metri, molto spesso puro o misto con il larice, lares, l’altra resinosa che conferisce un’impronta inconfondibile al manto forestale delle nostre montagne. Nelle località più aride e soleggiate il larice si spinge più in alto dell’abete rosso, che preferisce le zone più fertili ed umide. Più in alto ancora, oltre i 2000 metri, accanto al larice e all’abete rosso, si trova un’altra conifera, il pino cembro (o cirmolo), thirmol/thirum/thirm, presente solo nelle parti più interne ed elevate delle Alpi, cioè in zone con un clima molto continentale.

In tutte le epoche storiche, ad iniziare dal dominio della Serenissima Repubblica di Venezia, i boschi maggiormente sfruttati furono quelli dell’orizzonte montano superiore, dai quali si ricavavano i tronchi impiegati per la costruzione di navi e per molteplici altri scopi, considerato il vasto campo di utilizzo che le specie forestali presenti offrivano, dovuto principalmente alle particolari caratteristiche intrinseche delle resinose. Tra queste l’abete rosso occupava un ruolo di primaria importanza soprattutto nel campo della carpenteria e dei prodotti di falegnameria. Attraverso le fluitazioni sul Piave, il legname veniva condotto a Venezia dai boscaioli “dendròfori”, menadas, mediante un sistema di dighe, stue, disposti lungo tutto il corso del fiume e dei suoi principali affluenti, quali: il Cordevole nell’Agordino, il Boite e l’Ansiei nel Centro Cadore, il Maè in Zoldo e il Padola nel Comelico. Molti lotti di legname con destinazione Venezia provenivano addirittura dalle Valli di Fiemme e Fassa (Provincia di Trento); i tronchi venivano issati sino ai valichi di S. Pellegrino o Valles e attraverso l’Agordino giungevano al fiume Piave e quindi alla città lagunare.

D. Ma nota i dišea i vece, no sei se, che nota dopo cuanche i le menea dó co l aga che i le bicea dó nte l Piave alora i le menea dó dai Lavinas?

R. Dó dai Lavinà, sì, era n thidol cadó, i ciamea l thidol no, e un inte a la Poiata, inte dal tabià de chi de Foracol la nte la Buša d Oro là, era là anche n thidol che dea dó nte l Piave e la i le betea nte l Piave e le dea dó. I le bicea n primavera cuanche sul dišgelo cuanche vegnia l Piave gros e alora le dea fora par aga fin a Peraruó.

D. Le ruea fin a Peraruó?

R. Po sì. Era i menades.

D. E che voleo dì?

R. Eh, me recordo pulito dei menades io eh, me recordo co deone cadó boce, ih, niente nte la testa no aveone ncora, parchè cadó era peroi grande, cadó sote l cimitero, no, e là dó, ste tae farea sempre sera, no, le se fermea, e aveone l coragio de dì dó e montà sora le tae e dì a Lorenthago.[3]

Per evitare l’eccessivo sfruttamento dei boschi, con conseguenze sulla produttività futura di una tale risorsa economica naturale, i veneziani imposero dei criteri di prelievo degli alberi tali da garantire la perpetuazione delle singole entità forestali nel tempo e nello spazio. Pertanto le utilizzazioni di legname venivano commisurate a quanto un bosco era in grado di produrre.

Durante il dominio francese ed austriaco i boschi furono fortemente sfruttati e i saggi criteri di prelievo adottati dai veneziani vennero ripresi solo più tardi dalle leggi forestali dello Stato Italiano, (che vietano tutt’oggi il taglio su ampie superfici dei boschi d’alto fusto) che prescrivevano principalmente due metodi di utilizzazione: il taglio a scelta e il taglio a gruppi. Con il primo metodo venivano asportate le piante mature, mal conformate o ammalate e le soprannumerarie di una classe diametrica; con il secondo alcune piante vicine tra loro, in modo da creare una piccola buca volta a permettere la penetrazione della luce nel sottobosco. Questa logica di prelievo consentiva di mantenere i boschi in una situazione di fertilità e disetaneità simile a quella naturale, con piante mature e giovani semenzali presenti sulla medesima superficie, risultando, in questo modo, più vari ed ecologicamente più stabili; inoltre permetteva di procastinare l’abbattimento di singole piante, destinandole a diventare degli esemplari particolarmente sviluppati sia in diametro che in altezza, alla più alta delle quali veniva assegnato il titolo di “regina”, regina.

I boschi di larice e di cirmolo si trovavano a quote più elevate ed erano caratterizzati da densità inferiori alle peccete e alle abetine, ma come queste venivano trattati con tagli a scelta, avendo l’accortezza di non diminuire eccessivamente la densità dei soprassuoli per non incorrere nel pericolo di agevolare la formazione delle slavine, sempre incombenti lungo i versanti scoscesi delle Dolomiti.

Nell’orizzonte montano inferiore e nei fondovalle più stretti di quello superiore, i boschi erano costituiti in buona parte da latifoglie quali: il faggio, il frassino, frasin/frasen, il carpino, carpen/carpin, l’acero, aier/aer, e l’ontano, auno/aunith, che venivano utilizzati per la produzione di utensili e di legna da ardere, unica fonte di riscaldamento, bruciata nei focolari e nelle stufe presenti in tutte le case. Questi boschi erano generalmente mantenuti a ceduo (boschi costituiti prevalentemente da piante generate dal riscoppio delle ceppaie precedentemente tagliate) e venivano abbattuti, a differenza delle fustaie, su ampie superfici, caratterizzate da esemplari coetanei che raramente raggiungevano dimensioni ragguardevoli.

Dalla fine del 1800 in tutta l’area bellunese si andò sviluppando un ricco commercio di legname di conifere, che portò alla nascita di numerosissime segherie, mosse con la forza dell’acqua e per questo spesso disposte lungo il corso dei torrenti, nelle quali trovavano impiego molti boscaioli durante i periodi di inattività. I segati di ottima qualità, provenienti soprattutto dai boschi del Cadore, venivano acquistati dalle genti di pianura che, frequentemente, pagavano il conto con prodotti vegetali, quali granaglie e frutta, o con qualsiasi altro genere occorrente a quegli abitanti. Le selve della Val Comelico, di Auronzo e della Valle del Boite rivestivano un posto di primaria importanza per la produzione di legname di peccio e di abete bianco che, sul mercato locale e nazionale, venivano acquistati a prezzi molto elevati, fornendo un ritorno economico ragguardevole per tutti gli abitanti della montagna. Il larice, pur avendo un valore commerciale più elevato degli abeti, non era altrettanto diffuso, occupando le fasce più alte dell’orizzonte montano superiore. Scarsa era invece la produzione di legname di pino cembro, totalmente assente nella Val Comelico e presente solo nelle aree più interne della Valle del Boite e dell’Ansiei.

Non altrettanto pregiati erano i boschi dell’Agordino che compensavano la minor qualità con prezzi più contenuti, tanto che, agli inizi del ‘900, vi erano ben 34 segherie che confermano quanto sviluppato fosse il commercio del legname anche in questa zona. Le principali specie commercializzate erano: l’abete rosso, il larice ed il pino cembro, utilizzato principalmente come legno da intarsio vista la sua naturale attitudine ad essere intagliato. Molto raro era invece l’abete bianco che, pur trovando delle condizioni climatiche e stazionali favorevoli, non riusciva a svilupparsi, lasciando aperti molti interrogativi al riguardo che ancora oggi risultano senza risposta.

Una situazione atipica era quella di Rivamonte Agordino che, fino ai primi anni del 1900, non disponeva di boschi di alcun genere su buona parte del suo territorio. Dalle interviste raccolte in questa ricerca risulterebbe che tale anomalia fosse dovuta alla lavorazione metallurgica della pirite cuprifera, estratta dalla miniera di Valle Imperina (comune di Rivamonte). Secondo tali fonti le esalazioni dei fumi solfurei (anidride solforosa) provenienti dai forni fusori, diluite con l’acqua delle precipitazioni, davano origine alle piogge acide (acido solforico), che impedivano la crescita di qualsiasi vegetale per un vasto raggio di territorio, rendendo il paesaggio di questa zona quasi lunare. I forni fusori della Val Imperina furono definitivamente chiusi nel 1898, ma gli effetti delle piogge acide durarono ancora per diversi anni. Trovandosi in una tale situazione gli abitanti di Rivamonte erano costretti a percorrere lunghi tragitti per rifornirsi di legna da ardere che spesso tagliavano di nascosto, prima dello spuntare dell’alba, per eludere la sorveglianza delle attente guardie boschive. Questo compito spettava alle donne che risalivano al buio le pendici delle montagne circostanti per raggiungere i pini mughi (pino montano), cresciuti ad alta quota, lì dove gli effetti delle piogge acide non ne impedivano lo sviluppo. Dopo averne tagliati alcuni, li legavano in un fascio che trasportavano a valle caricandoselo in testa o all’interno di una gerla. Essendo un bene così pregiato, la legna da ardere veniva usata con parsimonia e nel focolare il fuoco restava acceso lo stretto necessario alla cottura dei cibi, terminata la quale i tizzoni ancora “buoni” venivano spenti ed accantonati per il pasto successivo.

D. Ma cuà a Riva, come bosc, arione come cande che voi arié piciol?

R. Cuà a Riva poc bosc ghe n era. Inte par drio l era l bosc.

D. Inte par drio, onde po alora?

R. Antrèghe, Versegàla, Col Damànte, era proprietà de chi da Riva…

D. Cande che arié piciol erelo come dó cuà par sot?

R. Nia del tut.

D. E dó par le roe?

R. Nia, era pulito, era pena fenì che i brušea la perite e no ghe n era piante, co ere piciol mi, eh! Dopo a scomenthià, co aee 8-9 ani a imboscase. A scomenthià a imboscase.

D. E dišeeli che era che po che aea brušà tut?

R. I forni, po! Che i brušea la perite, no! Venia fora el fum di forni e l brušea par na therta distantha, fin a metà la montagna la ia. E cuà fin su a Riva, sot a Riva insoma. Eh, l fum el brušea tut parché i brušea la perite dó su i forni, ah! Che l è ncora ades i segn, di forn e le piathe… Là i brušea la perite e chel fum là fin a na therta distantha, fin a trei chilometri de distantha, era tut brušà. E dopo co i à fermà…

D. Ma erba dó cuà par le roe ghe n venielo su?

R. Poca, poca, fiol! Anca la erba fin a n therto punto no venia su nia, eh! Era tut brostolà l; el taren el era sec el, insoma. Dopo in su era l erba che scomenthiea a venì su cuà e da cuà a ndà in su par Riva… I semenea pì che sia patate, eh! Eh, dopo che i a serà i forni a scomenthià la vegetathion, ma mi me recorde da alora in poi mi, parcheche da picol picol no me recorde nia de come che l era… Cande che aée 5-6 ani à scomenthià a venì su le piante, le prime piante. À scomenthià sanbuc e po calche pethol… Le prime piante era bedol, peth e sanbuc. E dopo s à nmboscà: frasen, agher, tut pian, pian. Ma senò era cosi l.

D. Ma, vosa mare e vos pare, veeli onde po a ciose le legne?

R. Eh, i dea fora le consegne su l Pian Grant… Su par le Mandre… par noi sot i Thei. E par chi sora i Thei i ndea su su la Marol.

D. Alora, lontan, lontan.

R. Lontan…

D. Ma elo ver che a fase n mescol bišognea che i vese inte par drio?

R. Ma comuncue no ghe n era da fà n mescol da cuà a Denìc a ndà fin dó a le Fošìne. Eco… che i portea chel proverbio… El problema era le legne da fà foc el… Da metà montagna in su cuà era piante… Onde che no rivea fum era le piante. A Digomàn, par ešempio, te catea le piante ti. Chi da Digomàn no i aea problemi… Ma noi cuà che arion thentha, noi cuà a Riva.[4]

Nella gestione e proprietà dei boschi ebbero, e in parte hanno tutt’oggi, un ruolo di preminente importanza le comunioni familiari o Regole. La loro origine risale al primo millennio, quando le famiglie di piccole comunità di villaggio sentirono la necessità di mantenere stabilmente i beni vitali, quali i boschi e i pascoli, come patrimonio comune indivisibile ed inalienabile, vincolati nella destinazione e nella modalità di utilizzazione mediante norme e usi locali.

Questa realtà locale trovò la sua massima organizzazione nelle Regole del Cadore, raggruppate in dieci “centenari” (Pieve, Auronzo, Comelico Superiore, Comelico Inferiore, Ampezzo, Oltre-Piave, Domegge, Valle, Venas, San Vito) e confluenti nella “Comunità di Cadore”. Esse, conservando la propria autonomia amministrativa, concorrevano, attraverso la nomina dei propri rappresentanti, a formare il governo centrale del Cadore con sede a Pieve. Ogni Regola disponeva di un “Laudo” che ne disciplinava la vita, dalle modalità per l’elezione degli amministratori (Marigo, sindaco, Laudatori, assessori, Saltari, guardaboschi) alla gestione dei beni comunitari. Alcuni laudi cadorini imponevano precauzioni rigorose per la prevenzione degli incendi. Una normativa dettagliata riguardava lo sfruttamento del patrimonio boschivo, il taglio ed il trasporto del legname. I boschi erano suddivisi in “vizze” specializzate per la produzione di diversi assortimenti in base al loro utilizzo: per fabbrica, per scandola, per legna da ardere, per acquedotto e a difesa degli abitati dalle slavine. Il reddito del patrimonio collettivo serviva ai bisogni dei singoli (rifabbrico, fabbisogno, legnatico e pascolo) ed alle necessità di pubblico interesse.

Le profonde trasformazioni conseguenti all’introduzione dell’ordinamento amministrativo locale di matrice napoleonica, determinarono la cessazione dell’esistenza di molte Regole, essendo stata assunta in molti casi dai Comuni l’amministrazione dei beni collettivi, sia pure con il mantenimento da parte dei soli regolieri dei diritti tradizionali di legnatico, pascolo e rifabbrico.

Soppresse dal decreto napoleonico del 1806, sopravvissute nella prassi economica e sociale sia sotto il dominio austriaco che il Regno d’Italia, passate indenni alla legge sugli usi civici del 1927, che tendeva all’abolizione de gli ordinamenti speciali e al trasferimento ai Comuni di tutti i patrimoni collettivi, le Regole del Cadore ottennero il riconoscimento di persone giuridiche pubbliche con il decreto legislativo n. 1104 del 1948 e la riconferma dei loro diritti con la legge n. 991 del 1952 e gli articoli 10 e 11 della legge n. 1102 del 1971. La recente legge sulla montagna n. 36 del 1994 e la legge regionale n. 26 del 1996, sul riordino delle Regole, attribuiscono loro importanza e responsabilità nella gestione del patrimonio ambientale. Soltanto alcune delle 37 Regole storiche del Cadore, proprietarie di circa i quattro quinti della superficie boscata, gestiscono direttamente i propri patrimoni silvo-pastorali secondo le consuetudini e i principi tradizionali. Le Regole svolgono lo stesso ruolo anche a Colle Santa Lucia, Larzonei di Livinallongo del Col di Lana e in Zoldo.

Note all’Introduzione

[1] Con Centro Cadore si intendono i Comuni di: Auronzo, Vigo, Lorenzago, Lozzo, Domegge, Calalzo e Pieve. [torna su]

[2] Per ulteriori notizie e approfondimenti su tutta l’area in questione si rimanda alla lettura del testo: Viaggio intorno a una provincia, a cura dell’Amministrazione Provinciale di Belluno.[torna su]

[3] G. C., anni 78, ex boscaiolo ed ex guardia boschiva comunale, Lozzo di Cadore, 23 settembre 1999.

D. Ma una volta, dicevano i vecchi, che li portavano sul Piave per farli fluitare fino a Perarolo. All’epoca li portavano dai Lavinas (località vicino all’attuale cimitero, sopra il fiume Piave).

R. Sì, in questa località c’era un “cidolo”, lo chiamavano il “cidolo”. Un altro “cidolo” era in località Poiata vicino al fienile dei Foracol in località detta la Buša d’Oro, c’era un cidolo. Buttavano i tronchi dentro al fiume Piave e li mandavano giù in primavera quando il fiume era grosso, in modo che scendessero fino a Perarolo.

D. Arrivavano fino a Perarolo?

R. Eh sì, c’erano i “menadés”.

D. Cosa significava?

R. Io mi ricordo molto bene dei “menadés”, quando da ragazzi incoscienti andavamo quaggiù, sotto il cimitero, a giocare sul Piave, c’erano dei grossi massi dove i tronchi si accavallavano e facevano una specie di chiusa, noi avevamo il coraggio di salire sopra questi tronchi sospesi sull’acqua fino ad arrivare sull’altra sponda del fiume, a Lorenzago di Cadore.[torna su]

[4] G. M., anni 90, ex boscaiolo e minatore, Rivamonte Agordino, 9 luglio 1999.

D. Ma qui a Rivamonte, come boschi, quale era la situazione quando voi eravate giovane?

R. Qui a Rivamonte c’era poco bosco. C’era bosco verso Voltago-Frassenè.

D. “Inte par drio” , dove allora?

R. Antrèghe (Comune di Voltago), Versegàla (sul confine tra i Comuni di Rivamonte e Voltago), Col da Màntene (Comune di Voltago): lì quelli di Rivamonte possedevano boschi…

D. Quando eravate giovane come era la zona qui sotto (a sud del villaggio di Zenich)?

R. Non c’era nulla (ossia terra bruciata).

D. E lungo i scoscendimenti (a sud dei villaggi di Zenich-Mottes-Montas)?

R. Nulla, terra bruciata, erano appena stati chiusi i forni fusori per la lavorazione metallurgica della pirite (la definitiva chiusura dei forni fusori risale al 1898) e piante non ce n’erano quando io ero giovane. Dopo ha cominciato, quando io avevo 8-9 anni, a crescere il bosco. Ha cominciato a rimboschire.

D. E dicevano che la causa della terra tutta bruciata era quale?

R. I forni fusori! La fusione della pirite! Usciva il fumo dai forni (con grandi esalazioni di gas solforosi) e bruciava il terreno fino ad una certa distanza, fino a metà montagna (a sud-est degli abitati di Rivamonte Agordino). E qua (sulle pendici del monte Armarolo), fino al capoluogo di Rivamonte, nella zona immediatamente sottostante, insomma. Il fumo bruciava tutto perché bruciavano la pirite giù nei forni. Ancor oggi rimangono i resti dei forni e gli spiazzi… Là bruciavano la pirite e quel fumo fino a una certa distanza, fino a tre chilometri di distanza, bruciava tutto. Poi quando hanno chiuso i forni…

D. Ma erba lungo i pendii (siti tra il villaggio di Zenic e le miniere di Valle Imperina, Comune di Rivamonte Agordino) ne cresceva?

R. Poca, poca! Perfino l’erba fino a un certo punto non cresceva. Tutto era abbrustolito; il terreno era secco, insomma. Più a monte dell’abitato di Zenic l’erba cominciava a crescere, da qua a Zenic verso il capoluogo di Rivamonte… Seminavano… soprattutto patate. Dopo la chiusura dei forni fusori ha cominciato a crescere la vegetazione, ma io ricordo da allora in poi perché di quando ero molto giovane non ricordo com’era la situazione… All’età di 5-6 anni hanno cominciato a crescere le piante, le prime piante. Ha cominciato la pianta del sambuco e poi qualche piccolo abete… Le prime piante erano: betulla, abete rosso e sambuco. Dopo il terreno si è rimboschito: frassini, aceri, tutto un po’ alla volta. Ma, altrimenti la situazione era questa.

D. Ma vostra madre e vostro padre dove andavano a prendere la legna da ardere?

R. Il Comune assegnava alle famiglie una porzione di legname ogni anno dalle parti di Pian Grant (località boschiva del Comune di Rivamonte)… su per le Mandre (Rivamonte Ag.)…, per gli abitanti della bassa valle. Per gli abitanti dei villaggi più in alto, il Comune assegnava il legname nei boschi siti sulla sommità del monte Armaròlo (Rivamonte Ag.)

D. Allora distante, distante?

R. Distante…

D. Ma è vero che per farsi un mestone di legno usato per rimestare la polenta bisognava che andassero nei boschi siti verso Voltago-Frassenè?

…Non c’era legno da costruire un mestone nella zona sita tra Zenic e le miniere di Valle Imperina… Ecco, ricorrevano a quel modo di dire… Il problema era quello della legna da ardere… La montagna (fianchi orientali e meridionali del monte Armaròlo, Comune di Rivamonte) presentava qualche pianta da metà in su… Dove non arrivava il fumo (anidride solforosa) crescevano le piante. A Digoman (villaggio del Comune di Voltago prossimo al confine con il Comune di Rivamonte), ad esempio, potevi trovare piante. Quelli di Digoman non avevano problemi… Noi qui eravamo privi di boschi, noi di Rivamonte.[torna su]