Latte, latticini e carne

Il latte e i suoi derivati furono per molti secoli alla base dell’alimentazione delle popolazioni del Cadore. Latte, formaggio, burro e ricotta con mais e patate rappresentavano gli alimenti base della dieta cadorina. La carne, poco diffusa tanto da essere definita da Riccardo Volpi frutto proibito [130], era in passato principalmente di agnello o capretto. Gli orti erano coltivati soprattutto a radicchi e cappucci, questi ultimi usati per la produzione dei crauti [131], si seminavano inoltre zucche, rape e pochi altri ortaggi. Discreta era la diffusione del fagiolo, mangiato in minestra e usato come merce di scambio con le popolazioni del Comelico, scarse produttrici di questa leguminosa. Le colture cerealicole più diffuse erano l’orzo, la segale ed il frumento, non tuttavia importanti per quantità, nella dieta alimentare giornaliera. Infine la frutticoltura era limitata a meli, peri e susini, noci e poco altro.[132] I latticini erano consumati direttamente o usati per la preparazione di semplici piatti soprattutto a base di mais.

L’utilizzo del latte e di latticini in cucina

Il latte per l’uso quotidiano era spesso quello di capra; risultava più conveniente portare quello di mucca in latteria per la produzione dei latticini. Il latte consumato ogni mattina da grandi e piccoli era spesso macchiato con il caffè d’orzo e accompagnato da polenta fredda o abbrustolita e più raramente da pane. Par marenda ai bambini veniva dato late peà\peòu indicato anche come tombolo. Una sorta di yogurt, ottenuto lasciando inacidire il latte a temperatura ambiente o con l’aggiunta di sostanze acide quali il vino rosso. Il latte peà\peòu era considerato un alimento importante soprattutto per le sue proprietà rinfrescanti e benefiche per l’intestino. Questo alimento era preparato e consumato tanto in casa, nel periodo invernale, quanto nei tabià in estate durante la fienagione. Con il latte di capra e di mucca si mangiava la polentina. Nella caldiera veniva preparata una polenta di consistenza molto tenera; con un cucchiaio si formavano delle specie di gnocchi che venivano disposti nel piatto di ciascun commensale. Su ogni piatto di gnocchi di polenta veniva grattugiata della puina fumentada\fumiada, ricotta affumicata, e versato del burro fuso. Accanto a ciascun piatto era disposta una scodella di latte dove venivano immersi gli gnocchi prima di essere mangiati. I pestariei erano una polenta quasi liquida che veniva versata nel piatto, lasciata leggermente raffreddare in modo che in superficie si creasse una sottile pellicola, e mangiata versandovi sopra del latte.

Con la dussa\duissa\iussa, il colostro prodotto dalla mucca nei giorni successivi al parto, venivano preparati degli ottimi dolci. La consistenza densa e la quantità di grasso del colostro era tale da non richiedere l’uso del burro nella preparazione delle fritole o di péte e pinthe, queste ultime realizzate con la farina di granoturco. Alcuni intervistati ricordano di aver mangiato la duissa aggiungendo del cacao quasi a formare una cioccolata calda. Infine col latte venivano prodotti formaggio e burro casalingo. Durante la stagione autunnale, prima dell’apertura delle latterie, le famiglie che disponevano di grandi quantità di latte lo trasformavano da sé. In casa veniva prodotto lo spres, piccola forma di formaggio ottenuto dal latte intero. Il burro, era prodotto con la pegna rotatoria o fissa con stantuffo e talvolta, soprattutto in tempi più recenti, con capienti bottiglie in vetro. Le quantità ridotte e destinate ad un consumo giornaliero. Il burro veniva usato per la cottura di qualsiasi alimento, l’olio poco reperibile e costosissimo era quasi sconosciuto, mentre il lardo era più diffuso. Al butiro\onto era usato fresco e più spesso, soprattutto in primavera e in estate, conservato cotto nelle père da butiro\onto capienti recipienti in pietra, di forma tondeggiante. Dopo la cottura, quando il burro era stato ormai posto nei contenitori di pietra, sul fondo della pentola o del paiolo di cottura rimanevano le nathe, utili per realizzare gustosissime péte o mangiate da sole o con la polenta. Un tempo, il burro consumato dalle famiglie era esclusivamente di pura panna, il cosiddetto butiro\onto de prima. Verso gli anni ’30, quando le latterie iniziarono a disporre di scrematrici per ottenere burro dal siero residuale della lavorazione della panna, furono tante le famiglie che per il consumo quotidiano di questo prodotto preferirono per il butiro\onto de seconda e non certo perché considerato migliore ma perché così facendo potevano vendere il burro di pura panna. Tutti gli informatori nel parlare del burro sottolineano la profonda differenza tra le due qualità, considerando il secondo un prodotto di scarto.

A cusignià l butiro ió lo bèto de na ciaudhiéra, tòlo sete-oto chile de butiro e pò lo béto là e pò beson savelo cusignià, se no te lo sas cusignià no l se conserva. Ió cusigno senpro la luna de martho, e dopo besón lassà n pètho a cusignià, beton n bèl cópo de àga sóte. Pò béto dhuto sto butiro, béto ca, che l se… desfèse, e l à da còso l butiro. Cuan che l butiro vién su, vién la sgàia, vién su, parché vó de na ciaudhiéra granda, parché se te as anche na ciaudhiéra così, che l é mèdha, l vién su; besón che te stèse atente che vién su la prima òta, alora te tire da na parte e te béte là, ancora che bóe, che bóe ancora n tin che à da venì su la seconda òta sta sgàia: alora l buro l é cuóto. Te lo béte là che l se desfredhe, e sóte resta le nathe, éro. E ió fèso péta, èi fato da… pèta mo e pò dhigo: st istiadhe èi betù via le nathe, èi fato na peta che era ca fòra anche A. e chi là che sta dhó… Bén, la péta vién dhuta sfregoladha co le nathe, perchè te béte anche sta mèdha scudhièla de nathe che é… Ma la pèta, ió ciamo péta, noi ciameóne péta, faseóne co la farina dhala e bianca e cossì, nvethe ió adhes fèso dhuto co la farina bianca, ma te siénte parchè vién dhuta come sfregolosa. Le nathe, diàu, era bón! Le magneóne co la polenta alora, e che bòne che le era! [133]

Il formaggio di latteria o di malga, era consumato solitamente fresco, poiché poche erano le famiglie che disponevano di quantità di prodotto tali da poterne destinare una parte alla stagionatura. Pochi informatori riferiscono di aver avuto a disposizione formaggio con due differenti livelli di stagionatura, in quanto poche erano le famiglie che disponevano di grosse quantità di prodotto. Il formaggio era prevalentemente consumato al naturale e accompagnato con la polenta o altro alimento. Frequente nelle tavole era il fricò, molto meno elaborato di quello della vicina Carnia, si trattava infatti di formaggio cucinato in una pentola con il burro o ancora frittate insaporite con pezzi di formaggio. Infine la puina, ricotta, rappresentava un cibo consueto, ma non godeva di grande considerazione da un punto di vista nutrizionale: un proverbio locale recita così ‘Puina: pì te magne manco te camine’ [134], e ciò per indicare la scarsa considerazione che questo prodotto evidentemente godeva per quanto riguardava le proprietà nutritive. La ricotta era mangiata tanto fresca che affumicata ed il suo utilizzo era limitato ad un consumo diretto con patate e polenta. Con la ricotta affumicata, prodotto soprattutto di malga, venivano insaporiti gli gnocchi, la pasta e la polenta.

La carne

Il consumo di carne fino agli 1955-’60 era fortemente limitato come ricordano tutti gli informatori. La carne era il cibo della domenica . L’utilizzo di carne di pecora e di capra era un tempo più comune di quanto oggi non si creda. Gli informatori solitamente ricordano l’uso di mangiare l curé\cauré e l agnel in primavera ed in particolare a Pasqua [135]. Tuttavia, insistendo, si scopre che abbastanza diffuse erano anche le salsicce di capra, luganeghe, poco gustose e piuttosto dure che spesso venivano prodotte miste, mescolando carne di maiale o di bovino. La carne di capra era usata anche per ricavarne le pendole, pezzi ottenuti tagliando in più parti gli arti dell’animale. La carne con l’osso era appesa in lunghi pali sopra il larin e lasciata affumicare; il suo utilizzo era soprattutto nelle minestre dove veniva cucinata assieme alle verdure per insaporire il tutto. Doveva in ogni caso trattarsi di animali giovani, altrimenti la carne era dura e con un sapore forte e poco gradevole.

I bovini erano portati al macello dopo circa un mese dalla nascita. La carne veniva in parte venduta ai macellai e in parte tenuta dai proprietari. È raro sentire parlare per il passato di bistecche, solitamente la carne di bovino come di capra o pecora era utilizzata per lo spezzatino in tòcio, cucinato con patate e accompagnato da polenta. La carne di bovino era inoltre impiegata per la produzione di salami e salsicce assieme a quella di maiale. Dopo gli anni 1930-’40, in ogni paese c’era un macello pubblico dove gli allevatori erano obbligati a portare i propri animali per la macellazione. È tuttavia difficile sapere con precisione quando questi iniziarono a funzionare; è in ogni caso certo che molti allevatori continuavano a fare da sé, nonostante il divieto. Capre, pecore e maiali potevano invece essere uccisi in proprio e questa pratica durò fino a non molti anni fa. [136]

Note al testo:

[130] Sulla dieta alimentare dei contadini della provincia di Belluno ed in particolare sull’uso della carne si veda Riccardo Volpi, Terra e Agricoltura nella provincia di Belluno, Bellluno, Tipografia Deliberali, 1880, pp. 237-242, e Tamara Rech, L’alimentazione tra festa e, in Daniela Perco, La cultura popolare nel bellunese, 1995, pagg. 312-337. [torna su]

[131] Il cappuccio veniva sminuzzato e pressato in barili di legno, alternando strati di cappuccio e sale. I crauti venivano consumati durante l’inverno. [torna su]

[132] L’importanza e la diffusione della frutta nella dieta alimentare cadorina è un aspetto che meriterebbe senz’altro un approfondimento, per capire la reale portata di questo importantissimo alimento. Sull’agricoltura e la frutticoltura si veda nota 22. [torna su]

[133] C.F., anni 77, ex contadina, Auronzo di Cadore, inverno 1998.

Per cuocere il burro io lo metto in una caldaia, prendo sette-otto chili di burro e poi lo metto là, e poi bisogna saperlo cucinare, se non lo sai cucinare non si conserva. Io lo cucino sempre alla luna di marzo, e poi bisogna lasciarlo cuocere per un pezzo, ci mettiamo sotto una bella ciotola d’acqua. Poi metto tutto questo burro, lo metto qua che si… che si sciolga, e deve cosarsi, questo burro. Quando il burro inizia a salire, si forma la schiuma, sale, perché ci vuole una caldaia grande, perché se hai anche una caldaia così, che è mezza, il burro sale; bisogna stare attenti che salga la prima volta, allora lo sposti da parte e lo rimetti là, che bolla ancora un po’ perché deve formarsi la seconda volta questa schiuma: e allora il burro è cotto. Lo lasci raffreddare, e sotto rimangono i resti, vero. E io le uso per la péta, ho fatto…. aspetta che poi le dico: quest’estate ho messo da parte i resti del burro cotto, ho fatto una péta, quando c’era anche A. e quelli che abitano giù… Beh, la péta si sbriciola tutta con questi resti, perché ci metti anche una mezza scodella di resti di burro, che sono… Ma la péta, noi dicevamo péta, la facevamo con la farina gialla e bianca, invece io adesso la faccio tutta con la farina bianca, ma si sente perché diventa tutta sbriciolata. Le nathe, diavolo, erano buone! Le mangiavamo con la polenta, allora, e che buone che erano! [torna su]

[134] Un informatore riferisce che, come pagamento per qualche servizio o lavoro, c’era chi offriva un’alternativa dicendo ‘Formai tristo o puina bòna? ‘ al che veniva risposto ‘A ió formai tristo, tu magnete puina bona’ [torna su]

[135] In molti paesi c’era l usanza di donare a Pasqua un agnello al prete. [torna su]

[136] Si veda l ‘Regolamento per la conduzione del Pubblico Macello Comunale’ 11 gennaio 1930.

Art. 2 Si può fare eccezione per suini, caprini, ovini.

Art. 3 La Direzione, ispezione e sorveglianza del macello è affidata al Veterinario Consorziale.

Art. 7 Annesso al Macello c’è uno spaccio di carni di bassa macelleria. Per ogni vitello e bufalino £ 1.0; per ogni vitello sopra l’anno £ 1.0, per ogni vitello sotto l’anno £ 0.8.Art. 12 Il pagamento della tassa dovrà essere fatto sempre prima della macellazione. A. C. D. [torna su]