La latteria e la produzione dei latticini

Le latterie sociali

A partire dal 1874 anche in Cadore iniziarono ad essere aperte le prime latterie.

Si trattava di cooperative che raggruppavano i proprietari di animali presenti nei singoli comuni o frazioni del comune. Le prime latterie furono realizzate a Pozzale ed a Borgo Vigo ad Auronzo , entrambe nel 1874[109]. Molte altre furono costruite negli anni successivi.[110] Alla fine dell’800 tutti i paesi del Centro Cadore erano forniti di una latteria. Nel Medio Cadore, ad Auronzo e nell’Oltre Piave ed in generale in Cadore non vi furono caseifici privati eccetto brevi esperienze; questo era dovuto senz’altro alla scarsa, se non nulla, presenza di grossi possidenti capaci di investire capitali in iniziative del genere.[111] Le latterie erano cooperative sociali, i cui soci erano allevatori e contadini. La gestione veniva affidata a commissioni composte da un amministratore, un segretario ed un cassiere. Ad esse toccava il compito non soltanto di far quadrare i conti a fine anno, ma di scegliere e nominare i casari e di adoperarsi per migliorare l’attività del caseificio. Un notevole contributo al funzionamento di tali cooperative veniva dai soci i quali, non erano soltanto tenuti a pagare annualmente la quota associativa, ma anche a prestare ore di lavoro gratuito, permettendo ai caseifici di vivere e continuare la loro attività evitando spese eccessive ed insostenibili. Tali prestazioni d’opera riguardavano la pulizia dei locali, degli strumenti di lavoro, delle forme di formaggio o l’assistenza al casaro in alcune operazioni più importanti, come la pesatura del latte e il riempimento delle caldaie. La frequenza di questi turni di lavoro dipendeva dalla quantità di latte consegnato da ciascun socio; maggiore era la quantità di latte e più frequenti erano i turni. Per alcune donne era un’occasione di piccoli guadagni; esse prestavano infatti il proprio lavoro ai soci impossibilitati o non interessati ad assolvere a queste mansioni.

Annualmente veniva tenuta l’assemblea generale dei soci durante la quale venivano presentati i conti consuntivi e di previsione di spesa, erano nominati i membri della commissione amministrativa ed erano discussi i diversi problemi concernenti la gestione e l’attività del caseificio. I soci, come si legge in alcuni regolamenti[112], erano obbligati a presenziare a tali assemblee, pena una multa pecuniaria stabilita dal regolamento stesso. In caso d’impossibilità, il socio era tenuto a giustificare la propria assenza. I membri della cooperativa erano generalmente uomini e in alcuni statuti le donne non potevano partecipare né con diritto di parola e di voto alle riunioni della suddetta assemblea, né sostituire il socio assente giustificato, né essere elette membro della commissione. La nomina della commissione amministrativa avveniva generalmente a votazione segreta o per alzata di mano; ogni socio aveva l’obbligo di accettare l’eventuale nomina e solo per gravi e giustificati motivi esso poteva essere sollevato dall’incarico. Per coloro che venivano nominati membri della commissione era previsto un piccolo compenso e il risarcimento delle spese sostenute. Gli intenti che queste cooperative erano soprattutto di apportare un miglioramento qualitativo nella produzione dei latticini; di potenziare il sistema dell’allevamento bovino, di rappresentare un punto di riferimento per gli allevatori spesso in possesso di un solo capo bovino.

Generalmente le prime latterie nacquero in edifici provvisori e non adatti allo scopo e pertanto dopo pochi anni seguì la costruzione di caseifici veri e propri, concepiti razionalmente, con ambienti adatti all’uso, che giovarono senz’altro alla produzione. Nei nuovi caseifici anche le attrezzature vennero scelte tenendo conto di quanto la tecnica offriva.[113] Va rilevato come da parte degli amministratori vi fu sempre l’interesse a conoscere e prendere esempio da situazioni e ‘aziende’ limitrofe. Lo testimonia la corrispondenza epistolare intrattenuta tra le varie latterie, da cui si ha notizia di frequenti scambi di esperienze e visite per la verifica di nuovi sistemi per la produzione dei latticini.[114] L’importanza che queste cooperative rivestivano nell’economia dei paesi è data anche dai frequenti convegni, sulla materia, che dagli ultimi decenni dell’800 in poi si tennero in provincia di Belluno e anche in Cadore. Oltre a dibattere su questioni tecniche relative al miglioramento della produzione casearia, frequenti erano le sollecitazioni da parte di molti ‘esperti’ ad unire in federazione le latterie del Cadore, sul modello dei caseifici Agordini [115]. Nel 1903 si tennero in Cadore una serie di conferenze sui vantaggi che tale unione avrebbe portato all’attività casearia della zona ‘Ma accioché le latterie sociali del Cadore possano avere quell’incremento che si aspettano, necessita seguire l’esempio delle latterie Agordine, cioè unirsi in una federazione e scegliere due o tre mercati nelle diverse regioni d’Italia per mettere un negozio di vendita. In questa guisa invece di ricorrere a negozianti intermediari, che assorbono una gran parte del nostro misero guadagno, le latterie venderebbero direttamente la loro merce con grande loro vantaggio, in oltre essendo i nostri burri buoni e molto profumati, in breve conquisterebbero il mercato. Inoltre, coll’unione delle latterie cooperative, si porterebbe anche maggiore impulso al perfezionamento dei mezzi di lavorazione dei nostri burri e dei nostri formaggi, la lavorazione dei quali in molti paesi lascia desiderare.’[116]

Lo stesso Comizio Agrario di Auronzo annualmente nominava un controllore per una visita d’ispezione ai diversi caseifici del distretto. Nella relazione dell’incaricato Enore Tosi[117], datata giugno 1908, si legge di una situazione complessivamente buona e tuttavia si rammenta di prendere continuo esempio da ‘Le vicine province di Treviso e di Udine, sempre alla testa del progresso agrario e delle industrie annesse…’[118]. Indubbiamente merito di queste cooperative fu la promozione di iniziative a vantaggio dei soci., quali la creazione di assicurazioni per la mortalità del bestiame o stazioni di monta taurina.[119]

Le latterie nacquero sotto la spinta di alcuni uomini che nella vita sociale del paese occupavano posti di prestigio e avevano incarichi amministrativi.[120] Essi non rappresentarono tuttavia una forza innovatrice e la capacità di apportare dei cambiamenti qualitativi nell’allevamento fu spesso un processo lento e poco consistente, anche a causa della difficoltà ad imporre agli allevatori, nuovi sistemi di allevamento e metodi di cura per le malattie più comuni del bestiame. L’introduzione della figura del casaro professionale certo migliorò e razionalizzò la produzione del formaggio[121]. Tuttavia anche per le latterie si pose il problema, come per le malghe, della pratica di prelievo eccessivo della parte grassa del latte per confezionare burro da vendere. Il commercio di questo prodotto, se da un lato comportava la diminuzione da un punto di vista qualitativo e nutrizionale del formaggio, dall’altra permetteva ai soci di ricavare quella rendita in denaro di cui tanto la società cadorina sentiva bisogno. La vendita del burro rappresentò a lungo l’unica forma di commercio praticato nella maggior parte dei caseifici, ancora fino anni ’60. Il formaggio prodotto era invece destinato quasi esclusivamente ai soci che in alternativa al consumo famigliare, lo vendevano privatamente.[122] Nello statuto della latteria di Laggio, modificato nel 1928, si legge tuttavia della disponibilità da parte della cooperativa di farsi carico della vendita del formaggio in esubero, alle famiglie.

Il funzionamento delle latterie e la produzione dei latticini

Nelle latterie di media grandezza venivano occupati normalmente due casari; il primo assunto fin dall’apertura del caseificio, il secondo impiegato verso la fine di novembre quando il latte aumentava poiché la maggior parte delle mucche del paese si erano sgravate. Il mestiere del casaro era faticoso e carico di responsabilità. La giornata iniziava la mattina presto poiché, al momento della raccolta del latte, era necessario che il latte della sera precedente, dopo essere stato scremato, fosse versato nelle caldaie e pronto per essere trasformato. Ogni caseificio aveva un’ora stabilita in cui veniva effettuata la raccolta del latte,

solitamente dalle 6,30 alle 7,30 del mattino. A provvedere alla consegna erano per lo più le donne; il latte era trasportato con il thanpedon o con i vase da late in metallo e a mano; solo dopo la seconda guerra mondiale vennero introdotti i vasi da portare in spalla. Il latte veniva pesato e la quantità scritta sul registro della latteria e sul libretto del socio, dove venivano inoltre annotate le consegne di formaggio e di burro. Il sistema di tenuta dei registri e di contabilità era uguale in tutte le latterie e si basava su un calcolo della rendita del latte e della quantità consegnata da ciascun socio. Inoltre per ogni quintale di latte consegnato veniva stabilita una tassa che il socio doveva corrispondere. Il latte e i recipienti usati per il trasporto erano sottoposti periodicamente a controlli. Per i vase veniva verificata l’eventuale presenza di ruggine, il latte veniva provinà. All’insaputa dei soci veniva prelevata una piccola quantità di latte che era sottoposta ad un esame per accertare la presenza di materia grassa e l’eventuale sofisticazione mediante l’aggiunta d’acqua o altre sostanze. Nel caso il latte fosse risultato alterato, si procedeva ad un ulteriore controllo su latte prelevato il giorno dopo direttamente in stalla dopo la mungitura. Se dal confronto tra il primo ed il secondo latte si dimostrava l’avvenuta sofisticazione, il socio era multato e, in caso d’iterazione, espulso dalla società.

Il latte pesato veniva versato in capienti vasche di rame, con base ovale e alte pareti munite di manici laterali, le quali erano poste in lunghe fontane di pietra con acqua corrente[123]. Durante la notte la panna, brama, affiorava in superficie e alla mattina si toglieva utilizzando la spanarola, una sorta di grande cucchiaio piuttosto fondo. Terminata la raccolta del latte, il caseificio veniva chiuso e nessuno avrebbe più dovuto accedere ai locali se non autorizzato. A partire dai primi decenni del ‘900, la maggior parte delle latterie erano provviste di caldaie fisse e di sistemi di spostamento meccanico del fuoco, certamente più comodo ed efficace rispetto al sistema col palo rotante su cui appendere la caldaia. Per la produzione del formaggio doveva essere usato il latte della sera prima con un’aggiunta di quello intero consegnato alla mattina.

Il latte era portato ad una temperatura di 35°-36°, che il casaro verificava con un termometro o, grazie ad una lunga esperienza acquisita, introducendo il gomito. Il fuoco veniva quindi allontanato dalla caldaia e si aggiungeva, bicià inte, bucià par sóra il caglio, conaio\eo\conagio. Come molti casari ricordano, il caglio veniva acquistato o molto spesso fabbricato da loro stessi con lo stomaco del vitello o capretto essiccato e ridotto in polvere. La quantità di caglio da usare, soprattutto quando si trattava di produzione propria, cambiava di volta in volta e veniva stabilita nei primi giorni d’uso.

Quindi si attendeva la formazione della cagliata e il fuoco veniva rimesso sotto la caldaia. Giunti a questo punto si doveva procedere alla frantumazione della cagliata, taià su la caliata, che veniva fatta con la violin\lira, denominata così per la forma. È infatti uno strumento costituito da un lungo bastone che funge da manico, dotato nella parte terminale di tanti fili metallici. La rottura della cagliata doveva essere fatta lentamente per conservarne la parte grassa, che altrimenti sarebbe andata perduta. Quindi si continuava a cucinarla portando la temperatura verso i 40°[124]; la cagliata era continuamente mescolata utilizzando un lungo bastone in legno munito nella parte terminale di un disco di circa 4-5 cm di spessore. Il casaro con la mano tastava la pasta del formaggio e verificato il punto di cottura, lasciava depositare la massa sul fondo. Per estrarre, tirà fòra, la massa di formaggio dalla caldaia c’erano diversi sistemi: si introduceva una tela di canapa nella quale raccogliere di volta in volta la quantità di formaggio sufficiente per una forma; la tela veniva afferrata per due angoli con le mani, mentre gli altri due venivano tenuti stretti con la bocca. Altro sistema, più adatto alle caldaie di piccole dimensioni, consisteva nel tagliare in quattro, con uno spago l’intera massa di formaggio ed estrarre i pezzi uno alla volta ponendoli nella forma. Altro sistema ancora consisteva nell’estrarre la massa in una sola volta e ricavare con una lama le varie parti da riporre nelle forme.

Il formaggio fresco veniva introdotto in forme, scatui e leggermente pressato con le mani. Si trattava di una fascia piegata a formare un cerchio apribile e richiudibile mediante una cordicella da tirare e far passare intorno alla fascia stessa. Solitamente il formaggio veniva tenuto nelle forme con le tele, che secondo l’abitudine del casaro, potevano essere cambiate nel periodo di messa in posa. Queste operazioni venivano effettuate su una spersola, tavolo dotato di una leggera pendenza, tabio, per permettere al siero, trattenuto nella massa di formaggio, di scorrere ed essere raccolto in un secchio. La pressatura del formaggio prima dell’introduzione delle presse manuali, avveniva ponendo sulle forme delle tavole di legno su cui venivano posti dei pesanti sassi. Per la salatura, salà, si ricorreva alla salamoia; delle grandi vasche ricolme d’acqua salata dove venivano introdotte le forme e lasciate per alcuni giorni. L’acqua e sale oltre che a salare il formaggio permettevano una ulteriore fuoriuscita del siero. L’acqua periodicamente doveva essere bollita e le vasche ripulite. La salatura terminava infine cospargendo la superficie del formaggio con dell’altro sale. Su ciascuna forma, petha, veniva scritto, segnà, il peso, il giorno di produzione e un numero progressivo; gli stessi dati venivano riportati in un registro della latteria. Il formaggio era infine portato in cantina per la stagionatura. Il lavoro non era tuttavia terminato poiché periodicamente bisognava ripulire la scorza e girare le forme. Nella cura del formaggio particolare attenzione veniva rivolta affinché non si formasse il cariól, una specie di tarlo che penetra nella pasta e spesso era sintomo di poca cura da parte del casaro. Per eliminare il cariol era sufficiente passare con acqua e sale la forma. La produzione casearia di queste latterie si limitava ad un solo tipo di formaggio a pasta semicotta. Tuttavia, come si legge nei verbali di riunione della Latteria sociale di Domegge e come ricordano molti casari, venivano sperimentate qualità differenti di formaggio, soprattutto per quanto concerne la percentuale di materia grassa. In alcune latterie, soprattutto per venire incontro ai bisogni di alcuni soci, al latte di mucca veniva aggiunto latte di capra, il risultato era senz’altro ottimo.

  • Te porte l late nte caliera e dopo te lo porte a na tenperatura de vintioto, trenta gradi, a seconda… Anche là é a seconda de l acidità , seconda …Dopo se agiunge l conaio. Cuan che l é coagulà, l late se coàgula, no, col conàeo, che saràe l caglio, saràe n presàme. Cuan che se à coagulà… Alora cuan che l late é coagulà, se …pian pianin se va avanti co la lavorazion e dopo se torna a tirà sóte l fuógo; parchè l fuógo, su n chele caldaie là, é tré caldaie generalmente in riga, l fuógo l é sóte su un carel che camina su le sine. Co na gremaliera, che cuan che se à ragiunto la tenperatura che se vó, se lo tira via l fógo: é na manovela che se gira, e l fógo é sul carel e l vién via. Parchè la tenperatura à da èsse chela che volon noi. L fógo no pó restà sóte, se no la tenperatura va su… o che la va su massa, o che la va su póco. Cuindi l fuoco bisogna tiralo via. Dopo cuan che se à fato… al coagulo vién dhuto conpato, de dhuta la massa, e bisogna rónpelo pian pianin, parchè ne la rotura….Al ne racomandèa senpre tanto anche l maestro là dhó a scòla: ne la rotura, sicome che… fa l formagio é le sostanze proteiche, la caseina e l albumina, no. Ma anche l grasso va inte tel formai: ma l grasso no se solidifichea come la caseina e l albumina, al tende a èsse pì solubile; cuindi ne la rotura l tende a di fòra nte l scòlo. Alora bisogna fèila lentamente la rotura, n maniera che al gras reste inte possibilmente al pì possibile nte l formai. Finidha la rotura…A seconda de i formagi la rotura se la fa che é dhuti i grani, i grani de formai no, i ciama i grani… La varia, nel nostro tipo la vien come l granoturgo, par esenpio; dopo al grana par esenpio al vién come un riso….Varia nsoma, al Bel Paese resta come na nòcciola, na nosèla, e dopo é dei tipi che resta come na cucia. Ma a seconda de i tipi se fa la rotura. E dopo se fa la cotura, e anche la cotura varia a seconda de i tipi. Parché dopo avón anche le tre grandi categorie: formaggi crudi, formaggi semicotti e formaggi cotti.
  • Fra i formagi cotti é l grana e chi tipi de formagio là, da condimento, disón. Fra i semicoti é anche l tipo de formagio che se farèa noi ca, che se lo ciamèa ‘Asiago’, tipo ‘Asiago’. Però é tante módhi de fèilo, a seconda anche de l grasso che s i lassa inte, che l vien più o meno morbidho, ah. E invethi fra i crudhi avon dhuti … l ‘Bel Paese’, dhuti chi formagi tèneri, là… Chi là é dhuto formagi crudhi. Che se lo fa possibilmente con latte intero. (…) Ma l nostro ca l era n tipo semicoto. E cuan che se à ragiunto la tenperatura che se vó, da i trentasete a i trentanove gradi, a seconda, varia a seconda de l acidità del late, a seconda la stagione. E alora se torna a tirà via l fuòco e se continua a lavoralo fin che noi, sentendolo co le man no, se sente che sti grani i é abastantha asciuti no, asciuti al punto che dhisiderón noi nsoma. Se volon l formagio pì dhuro, pì consistente da lassalo nvechià e pò magare gratalo anche, alora lo faron pì asciuto. E se no lo tenion pì morbido, maniera che al matura prima, ma bisogna anche magnalo prima. Pò cuan che sentón che l é asciuto al punto giusto, lo lasson deposità, alora l se deposita tuto sul fondo, al fa presa, al fa tuto un bloco. E lo lasson là circa diese minuti; dopo é da tiralo fòra. A tiralo fòra, anche là é tante sistemi, é tante sistemi. Ió èi adhotà de i sistemi che tolèo una tela de lino (che se le dhòra le tele a tirà fòra l formagio così) e dèo dhó co un nastro metalico, farèo su al bordo de la tela n tin d intorno, dói tré giri no. E dèo dhó con nastro metalico così e taeèo dhó n tòco e lo voltèo inte te tela. Pò molèo l nastro, ciapèo i cuatro bèche lo portèo fòra, l é l sò scatol, no. Se lo betèa inte e se lo lassèa là provisorio, là sul tavolo. E se tolèa fòra chel àutro. Però i é tanti sistemi. Èi lauràa anche ca su la lateria de Grea e era na caldaia picola, che avèa circa cuatro cuintai de late. Alora là invethi lo unìo dhuto, e dopo lo voltèo sote sóra e dopo con un spago la taèeo in cuatro pezi, e dopo tirèo fòra i cuatro pezi un a l òta e i betèo nte scatol. Sì, é tanti sistemi nsoma. E pò èi visto dei casari, che dhèo magare a ciatà nte le laterie, mé coleghi, chi i dhèa dhó co na tela granda e i avolgèa dhuta la massa nte la tela no, tuta nsieme, e pò i leèa i cuatro bèchi, e i betèa inte un palo e i lo portèa ntero sul tavolo. E là co na gortelina granda i se s-cionèa fòra le pethe. Era tanti sistemi nsoma. E dopo se lo passa sóte pression. Adhè é de i torchi, torchi mecanici éro, che se lo pressa, e se nò se avèa anche de le père tonde così no, de cemento no. Se metèa dei dischi de len sóra la pètha no, pò se ghi metèa sóra sto peso e se lo lassèa là un ora-dhóe, a pression. E del sièro che restèa dopo o se farèa puina, no… del scòlo che restèa n te caliera dopo tirà fòra l formai: o se farèa puina… [125]

Terminate le operazioni di produzione del formaggio, in alcune latterie si procedeva con la ricotta. La produzione di questo latticino non era costante e spesso veniva realizzata su ordinazione di alcuni soci, ai quali toccava pagare la legna consumata.[126]

A limitarne la produzione era il maggiore quantitativo di legna richiesto per portare il siero a circa 90°. Raggiunta tale temperatura nel siero, póron\sgólo/scólo, veniva versato il sal canal o la tenpra, una sostanza acida, talvolta ottenuta dal siero inacidito, che permetteva alla ricotta di affiorare in superficie, venì par sóra. Allora con una spatola forata veniva raccolta, messa in sacchetti di canapa e lasciata sgocciolare. Posta su un tavolo, si comprimeva leggermente con le mani e infine si lasciava per 24 ore sotto un peso per conferirle una forma tronco conica. Negli ultimi anni i sacchetti di canapa vennero sostituiti dai cestini in plastica.

Alla produzione del burro, butiro/ onto, si riservava particolare attenzione, poiché, come si è detto, esso veniva venduto talvolta anche a commercianti di altre regioni d’Italia.[127] Il burro veniva diviso in butiro/onto de prima o de seconda ovvero burro di pura panna o proveniente dalla scrematura della nida, latticello residuale della lavorazione del burro di panna. La scrematura del latticello venne introdotta verso gli anni 1930-’40 e solitamente le due qualità di burro erano tenute separate e vendute a prezzo differente. Per lungo tempo le zangole rotatorie furono azionate manualmente, menà la pégna, e solo in un secondo tempo vennero dotate di un motore elettrico. La panna veniva versata nella zangola e centrifugata per 50-60 minuti; il tempo variava seconda della temperatura. Per verificare l’avvenuta burrificazione era sufficiente guardare la finestrella in vetro, posta sulla parete della zangola, se questa si presentava trasparente e non opaca per la presenza della panna, significava che il burro era pronto. Successivamente il burro veniva depositato su un tavolo e lavorato energicamente con le mani o con un attrezzo apposito, versandovi di tanto in tanto dell’acqua fredda. Per ottenere un buon burro e per assicurarne la conservazione era necessario privarlo il più possibile dal latticello. Infine il burro veniva confezionato in panetti modellandolo con delle spatole o in appositi stampi decorati con motivi floreali e con il nome della latteria da imprimere sulla superficie. Burro e ricotta, a differenza del formaggio, venivano distribuiti ai soci circa ogni due settimane.

Generalmente le latterie rimanevano aperte da ottobre-novembre a maggio-giugno, sebbene la latteria di Lozzo rimanesse aperta anche nel periodo estivo, raccogliendo latte dai paesi limitrofi. Il caso di Lozzo è decisamente anomalo rispetto le usanze e abitudini dei comuni vicini e gli stessi allevatori non sanno spiegare il perché di questo sistema differente. Anche ad Auronzo negli anni ’70 la latteria di Piazza Vigo, ormai l’unica funzionante, delle quattro esistenti, rimaneva aperta tutto l’anno. Ciò era dovuto probabilmente alla massiccia presenza di turisti durante il periodo estivo.

Tra il 1960 e il ’80 molte latterie chiusero, tra le prime quella di Calalzo,[128] altre iniziarono ad accettare latte proveniente da paesi e frazioni limitrofe per compensare la perdita dei propri soci. Il calo degli animali in questo periodo era tale da rendere sempre più difficoltosa la vita dei caseifici, soprattutto considerando il sistema di gestione praticato nelle latterie sociali del Cadore. Alcune latterie continuarono a sopravvivere grazie alla presenza di pochi allevatori con un numero di capi bovini di gran lunga superiore a quello tradizionale e pertanto capaci di supplire alla generale diminuzione di addetti a tali attività Di ostacolo furono anche le mutate abitudini alimentari delle famiglie e soprattutto l’incapacità di queste cooperative di cambiare e adeguarsi a tempi nuovi. La diminuzione degli animali fu comunque la causa prima e più importante che determinò la chiusura dei caseifici e il progressivo abbandono di alcune importanti malghe. Le ultime latterie a chiudere in Cadore furono quelle di Lozzo nel 1984 e poi di Domegge nel 1989.

Da allora i pochi allevatori del Cadore si rivolsero definitivamente al caseificio Latte Busche, che per venire loro incontro, organizzò la raccolta del latte ogni due giorni nei paesi, fornendo contemporaneamente vasche per la raccolta e la conservazione del latte.

D. Te me as dhito che te mondèe, ma no te mondèe a man?

– No, aveóne le mungitrici, no, aveóne un inpianto de mungitura proprio a l avanguardia, cioè con sala de mungitura ònde che le vace ién inte, le se mete su la so posta e le se fa monde. Però aveóne le mungitrice, e dopo aveóne le vasche refrigeranti, parchè che ultimamente conferióne l late Latte Busche. Parchè noi aveóne proà a l inìthio, che aveóne ancora póche vace, a portà cassù in lateria, solo che dopo l era una cuestione tecnica, cioè che cuan che la lateria distribuìa l formai n òta ogni dói mes, noi se ciateóne con vinti, trenta forme de formai, e magare era l periodo in cui la dhènte volèa canbià gusti, adhes magare l é un ritorno i sapori n tin…, che no se ciata pì, par spiegasse, ma alora dhèa de modha i…scominthièa a dhi de moda i supermercati, nissun tolèa pì la forma de formai ntiera, parchè la podhèa èsse amara, la podhèa èsse saladha, cuindi dhute volèa tòle un tocheto…E noi par comodhità aveóne bisuói de vende, de vende dhuto l formai che aveóne. Cinilo là te cianeva, volèa dhi manutenzione, dhi a netalo, dhi a giralo, che conportèa anche perdita de tenpo. Perdita tra parentesi, parchè che, sicome noi reóne tanto ciapadhe co l laoro, aveóne bisuói de tendi ca a prodhusse late, eco. E alora aveóne optà par dhi a portà l late, de mandà l late a Busche. Busche ienèa un giorno sì e un giorno no, cuindi aveóne na granda vasca da sete cuintai, ònde che buceóne inte l late de le cuatro mungiture, l se refrigerèa a cuatro gradi, e pò passèa l trasportatore, l tolèa e la lo portèa dhó, ah.[129]

Note al testo:

[109] Per una brevissima storia delle prime latterie sorte in Cadore si veda Antonio Barpi, La Pastorizia in Cadore, Pieve di Cadore, Tipografia Tiziano, 1876, pagg.. 82-83. [torna su]

[110] Borgo Vigo 1874, Reane, Borgata Tarin, Villa Piccola Ad Auronzo 1875; Domegge, Vallesella, Calalzo 1876; Pozzale 1874, Sottocastello, Vigo; Laggio 1977; Tai 1878. I dati sono ricavati da, ‘Secondo Convegno delle latterie Sociali della Provincia di Belluno, tenutosi in Auronzo l’11 maggio 1879′, Belluno Tipografia di G. Deliberali ,1879. Lozzo1884, il dato è ricavato da Walter Musizza; Giovanni De Donà, Daniele Frescura, Il forte di Col Vidal. Con le altre difese della stretta di Tre Ponti, Udine, Edizioni Ribis 1990. [torna su]

[111] Bruna Casol , Note sull’agricultura e le latterie sociali nel Bellunese fra ottocento e novecento, in Storia contemporanea del Bellunese, Feltre, Libreria Pilotto Editrice, 1985, pag. 60. [torna su]

[112] Si vedano i regolamento della latteria di Laggio e Domegge di Cadore. B.S.V. e A.L.D. [torna su]

[113] Nel 1908 la Latteria Sociale di Domegge installò nel proprio caseificio un nuovo sistema per la distribuzione del fuoco sotto le caldaie; la ditta fabbricatrice era la Pasquale Tremonti di Udine. A. L. D. [torna su]

[114] Nell’archivio della Latteria Sociale di Domegge di Cadore sono conservati innumerevoli documenti e carteggi relativi all’attività della latteria dall’anno della sua fondazione 1876 all’anno di chiusura 1989. [torna su]

[115] Istituto Storico Bellunese della Resistenza, a cura di, op. cit. pag. 61. [torna su]

[116] Matteo Talamini, Le latterie cooperative nel Cadore e i vantaggi che ne deriverebbero dalla loro unione per la vendita in comune dei prodotti dell’industria casearia. Riassunto di alcune Conferenze fatte in Cadore nell’estate 1902, Roma, Casa Editrice Italiana, 1903. [torna su]

[117] Enore Tosi, Relazione.Visita alle latterie del Distretto di Auronzo, Pieve di Cadore, Premiata Tipografia Tiziano 1908. Enore Tosi era titolare della Sezione Speciale per il Caseificio Cattedra Ambulante Provinciale d’Agricoltura di Udine [torna su]

[118] In Enore Tosi, op. cit., pag. 10 si legge: ‘La razionale utilizzazione dei cascami, specie del siero, lascia alquanto desiderare, perché in parecchie latterie i soci non smaltiscono completamente la produzione giornaliera di questo liquido, …, gettando il rimanente come cosa di nessun valore…Il modo più pratico e sicuro di ricavare un utile notevole dal siero invenduto è quello di darlo come alimento ai piccoli maiali che ne sono ghiotti…. Facendo il giro per i prati posti sul pendio della montagna o sul dorso di un colle, ho visto in parecchie località che la flora era scadente e la vegetazione minima, per effetto del ristagno dell’acqua di sorgente e di pioggia dovuto in gran parte al terreno argilloso e poco permeabile…Un sistema economico di fognatura o di drenaggio con sassi e ruderi e una più accurata incanalazione delle acque ovvierebbe a questi inconvenienti, il cui danno se non si pone rimedio. si perpetua e si accresce…..Riguardo il personale di latteria, non posso che ripetere quello che dissi l’anno scorso: salvo eccezioni esso è desideroso, e avido di apprendere, di istruirsi…’. [torna su]

[119] Enore Tosi, op. cit., pag. 5. [torna su]

[120] D’un convegno a Roncegno fra i due iniziatori del caseificio a sistema svedese nelle province di Belluno, Venezia, Tipografia della Gazzetta, 1880, pag. 20 . [torna su]

[121] La maggior parte dei casari del Cadore avevano conseguito la qualifica alla scuola di Mas (BL); per alcune brevi informazioni sulla scuola si veda Giuseppe Berneri, Caseificio bellunese, in ‘Rassegna Economica’, anno II, n. 2, febbraio 1954, pag. 10. [torna su]

[122] D’un convegno a Roncegno, op. cit., pag. 20. Si veda anche, Atti del Convegno regionale veneto per il miglioramento dell’economia montana, Consulta Regionale per l’agricoltura e le foreste delle Venezie, Belluno, Tipografia Benetta, 1946. [torna su]

[123] Un tempo il materiale per la fabbricazione di molti strumenti e recipienti usati in latteria o malga era il legno, sostituito in un secondo momento dal rame e poi dall’alluminio. [torna su]

[124] Il tipo di formaggio prodotto in Cadore era solitamente della categoria dei semi-cotti; la cagliata frantumata viene portata ad una temperatura di 40° circa. Nei formaggi così detti cotti, come il grana, la cagliata viene portata anche a 52°. [torna su]

[125] G.C., anni 74, ex casaro, Grea di Cadore, inverno 1999.

Porti il latte nella caldaia e poi lo porti ad una temperatura di ventotto, trenta gradi, dipende… Anche lì dipende dall’acidità… Poi si aggiunge il caglio. Quando è coagulato, il latte si coagula, no, il conàeo, che sarebbe il caglio, è un presame. Quando si è coagulato… Allora, quando il latte è coagulato, si… pian pianino si procede con la lavorazione e poi si rimette di nuovo il fuoco sotto; perché il fuoco, in quelle caldaie, ci sono tre caldaie generalmente in riga, il fuoco sta sotto su un carrello che scorre su delle scine. Con una cremagliera, così che quando si è raggiunta la temperatura che si vuole, si toglie il fuoco: c’è una manovella che si gira, e il fuoco è sul carrello e si sposta. Perché la temperatura dev’essere quella che vogliamo noi. Il fuoco non può restare sotto, altrimenti la temperatura sale… o sale troppo, o sale poco. Quindi il fuoco bisogna toglierlo. Poi, quando si è fatto… il coagulo diventa tutto compatto, tutta la massa, e bisogna romperlo pian pianino, perché nella rotura… Ci raccomandava sempre tanto anche il maestro laggiù a scuola: nella rottura, siccome… a fare il formaggio sono le sostanze proteiche, la caseina e l’albumina, no. Ma anche il grasso va nel formaggio: ma il grasso non si solidifica come la caseina e l’albumina, tende ad essere più solubile; quindi nella rottura tende ad uscire nel siero. Perciò bisogna farla lentamente, la rottura, in modo che il grasso resti il più possibile dentro il formaggio. Finita la rottura… A seconda dei formaggi si fa la rottura che sono dei grani, i grani del formaggio, no, li chiamano grani… Varia, nel nostro tipo diventa come il granoturco, per esempio; poi il grana per esempio diventa come un chicco di riso… Varia, insomma, il Bel Paese resta come una nocciola, una nocciolina, e poi ci sono dei tipi che restano come una noce. Ma la rottura si fa a seconda dei tipi. E poi si fa la cottura, e anche la cottura varia a seconda dei tipi. Perché abbiamo anche le tre grandi categorie: formaggi crudi, formaggi semicotti e formaggi cotti. Fra i formaggi cotti c’è il grana e quei tipi di formaggio lì, da condimento, diciamo. Fra i semicotti c’è anche il tipo di formaggio che facevamo noi qui, che si chiamava ‘Asiago’, tipo ‘Asiago’. Però ci sono tanti modi di farlo, anche in base al grasso che ci si lascia dentro, che diventa più o meno morbido. E invece fra i crudi abbiamo tutti …. il ‘Bel Paese’, tutti quei formaggi teneri… Quelli sono tutti formaggi crudi. E lo si fa possibilmente col latte intero, ma il nostro qui era un tipo semicotto. E quando si è raggiunta la temperatura che si vuole, dai trentasette ai trentanove gradi, dipende, varia in base all’acidità del latte, in base alla stagione. E allora si toglie di nuovo il fuoco e si continua a lavorarlo finché noi, sentendolo colle mani, sentiamo che questi grani sono abbastanza asciutti, no, asciutti al punto che desideriamo noi, insomma. Se vogliamo formaggio più duro, più consistente, da lasciar invecchiare e poi magari grattugiarlo, allora lo facciamo più asciutto. Altrimenti lo teniamo più morbido, così matura prima ma bisogna anche mangiarlo prima. Poi quando sentiamo che è asciutto al punto giusto, lo lasciamo depositare, e si deposita tutto sul fondo, fa presa, fa tutto un blocco. E lo lasciamo là circa dieci minuti; poi lo si deve tirare fuori. Per tirarlo fuori, ci sono anche lì tanti sistemi, ci sono tanti sistemi. Io ho adottato dei sistemi per cui prendevo una tela di lino (che si adoperavano le tele per togliere il formaggio) e scendevo con un nastro metallico, lo arrotolavo intorno al bordo della tela, due o tre giri. Scendevo col nastro metallico così e tagliavo un pezzo e lo voltavo nella tela. Poi lasciavi il nastro, afferravo i quattro angoli e lo portavo fuori, che c’è il contenitore apposta, no. Si metteva dentro e lo si lasciava là provvisorio, là sul tavolo. E si toglieva dalla calaia quell’altro. Però ci sono tanti sistemi. Ho lavorato anche qui nella latteria di Grea e c’era una caldaia piccola, che aveva circa quattro quintali di latte. Allora lì lo univo tutto, invece, poi lo giravo sottosopra e poi con uno spago la tagliavo in quattro pezzi, e poi tiravo fuori i quattro pezzi uno alla volta e li mettevo nel contenitore. Sì, ci sono tanti sistemi, insomma. E poi ho visto dei casari, che magari andavo a trovare nelle latterie, miei colleghi, che scendevano (nella caldaia) con una grande tela e avvolgeano tutta la massa nella tela, no, tutta insieme; poi legavano i quattro angoli, ci infilavano un palo e lo portavano sul tavolo tutto intero. E là, con un grande coltello si ricavavano le forme. C’erano tanti sistemi, insomma. E poi lo si mette sotto pressione. Adesso ci sono dei torchi, torchi meccanici, vero, per pressarlo, e se no avevamo anche delle pietre tonde così, di cemento. Si mettevano dei dichi di legno sulla forma, poi ci si appoggiava sopra questo peso e si lasciava là un’ora-due, sotto pressione. E col siero che rimaneva ci si faceva o ricotta no… con il siero che restava nella caldaia dopo aver tolto il formaggio, si faceva ricotta…. [torna su]

[126] Nella maggior parte delle latterie del Centro Cadore, Oltrepiave ed Auronzo dopo gli anni Settanta il forno a legna fu sostituito con quello a nafta o gasolio. [torna su]

[127] La latteria Sociale di Domegge di Cadore intratteneva rapporti commerciali con la ditta Fratelli Giusti di Pisa. A.L.D. [torna su]

[128] Nel comune rimase aperta solo la piccola latteria di Rizzios , frazione del Comune di Calalzo. Fonte orale. [torna su]

[129] S.M., anni 41, imprenditore agrario, Vallesella di Cadore, inverno 1999.

D. Mi hai detto che mungevi, ma non mungevi a mano?

No, avevamo le mungitrici, no, avevamo un impianto di mungitura proprio all’avanguardia, cioè con sala di mungitura dove le vacche entrano, si mettono al loro posto e si fanno mungere. Però avevamo le mungitrici, e poi avevamo le vasche refrigeranti, perché ultimamente cosegnavamo il latte a Latte Busche. Perché noi avevamo provato all’inizio, quando avevamo ancora poche vacche, a portarlo quassù alla latteria, solo che poi c’era una questione tecnica, cioè che quando la latteria distribuiva il formaggio una volta ogni due mesi, noi ci ritrovavamo con venti, trenta forme di formaggio, e magari era il periodo in cui la gente voleva cambiare gusti, adesso magari c’è un ritorno ai sapori un po’…, che non si trovano più, per spiegarci, ma allora andavano di moda i… cominciavano ad andare di moda i supermercati, nessuno prendeva più la forma di formaggio intera, perché poteva essere amara, poteva essere salata, quindi tutti volevano un pezzetto… E noi per comodità avevamo bisogno di vendere, di vendere tutto il formaggio che avevamo. Tenerlo là in cantina significava manutenzione, andare a pulirlo, andare a girarlo, che comportava anche perdita di tempo. Perdita tra parentesi, perché siccome noi eravamo tanto presi col lavoro, avevamo bisogno di badare a produrci il latte, ecco. E allora avevamo optato per l’andare portare il latte, mandare il latte a Busche. Busche veniva un giorno sì e un giorno no, quindi avevamo una grande vasca da sette quintali dove versavamo il latte delle quattro mungiture, si refrigerava a quattro gradi, e poi passava il trasportatore, lo prendeva e lo portava giù, ah. [torna su]