Il lavoro nella stalla

Durante il periodo invernale gli animali erano tenuti in rustici, situati in paese, composti da stalla e fienile Si trattava di edifici perlopiù in muratura talvolta annessi alla parete nord delle abitazioni o anche separati. In entrambi i casi, le stalle erano collocate al piano terra e sormontate da fienili di legno a più piani. Alcuni rustici si presentavano molto simili a case; i più antichi con ballatoi e sottotetto aperto, i più recenti completamente in muratura. I ballatoi spesso formavano una sorta di portico in corrispondenza della stalla dove erano tenuti al riparo vari attrezzi da lavoro. [50]

Le stalle erano costituite da un piccolo ambiente nel quale trovavano posto in media due, tre bovini e un numero variabile di pecore e capre. Solitamente lo spazio per accogliere gli animali minuti era ricavato con delle tavole che funzionavano da divisorio. La convivenza di bovini e ovini nel medesimo ricovero era considerata vantaggiosa, in quanto si credeva che la lana delle pecore assorbisse l’umidità prodotta dai bovini. Lungo la parete era addossata la cianà, mangiatoia quasi sempre in legno, munita nella parete esterna di un foro, dove veniva introdotta la ciadena de le vace per legare i bovini. Molte stalle erano dotate delle rastrelliere grepia\scaliera, fissate sopra la mangiatoia, e di una botola, fénil\fienil, posta in un angolo che collegava la stalla al fienile e nella quale veniva buttato il fieno per gli animali. Nella stalla, in corrispondenza della botola, c’era una struttura alta fino al soffitto, formata da assi di legno; in essa veniva raccolto il fieno da distribuire nelle mangiatoie.

D. In stala chi élo che starèa drio a la vacia, che la la mondèa, la la…Chel che se dhì guernà, nsoma?

– N genere, la storia l era n tin divisa fra i conponenti de la faméia. Ma era senpre calchidhun che farèa de pì. Mé mama, dhèa tanto a…netà la stala, che se dhisèa ‘a portà fòra la grassa dhe stala’, a stèrne a la vacia… A móndela nò, a móndela era me papà e me nona, fin che l à vivesto, no. .. Dhopo bisognèa… l fienìl l era sempre n tin o sóra la stala o di fianco de la stala, cuindi bisognèa dhi a tòle l fien e portalo te cianà, dai da bée a la vacia. D inverno, proprio cuan che era tanto fredho, i paricèa le seie dhe l èga, che le bée te stala, ma cuan che era apena apena posibile le ienèa liberadhe da la stala e paradhe a la fontana, che ogni frathion del paese avèa na fontana, a chei tempi cuasi cuasi a posta par abeverà la, la…le vace. E le dhèa su la fontana e i dhisèa ‘dhì a beverà le vace’, no. E chesto era le funzioni che se dovèa fèi ne la stala atorno a le bestie; chi che avèa una o che avèa dhói, ma era così. Naturalmente fòra dhe la porta dhe stala era n bòta la corte ònde che…la corte dhe grassa, ònde che se portèa fòra dhe stala e là se ngrumèa par poi… durante l inverno portala par i prà, no, pa i ciampe, pa i prà, pa le vare. E chesto era una funzione naturalmente da fèisse giornaliera, ah? Ogni giorno bisognèa fèi chesta roba. In pì ogni giorno bisognèa cambià chel che era l liéto dhe la vacia cuan che la dhormìa, no, e che….Chi tempi se dhèa te la Vitha, noi da Depo dheóne te la vitha, a restelà su dhuta la fóia che era sóte le faghere, la porteóne a ciasa leadha te i lenthuói, ciareadha su la liódha, i lenthuói ciareadhe dhe sta fóia, portadhe te ciasa e era n posto esclusivamente risservà per l deposito de chesta fóia. Fóia che se ciamèa ‘par béte roba a stèrne’. A stèrne significa spande chesta fóia e fèi el lieto sote a la vacia ònde che la dormìa, ah.

D. Ma l fién come ienèelo portà dal fienile…dal tabià a la stala. Come se pòrtelo?

– Ah alora…Era dei fienili che sicome i era sistemadhe proprio sóra la stala, alora, in un angolo dhel fienile ienèa fato na botola che l era in comunicathión co la stala dhe sóte. Alora i dhèa su la medhéna dhe fien, i tolèa la cuantità dhe fien richiesta par …par el pasto dhe la vacia, no, i lo bucèa dhó pa sto bus… Calchi òta l era l bus che ruèa diretamente te cianà, calchi òta l ruèa de fianco, alora dhopo i dhèa dhó te stala ònde che era tomà dhó stó fien, i lo ciapèa e i lo betèa te cianà ònde che la vacia naturalmente dopo magnèa, ah.. [51]

Alle pareti della stalla erano appesi i vari attrezzi di lavoro: lo sgabello per la mungitura, sèla da monde o l scai, la striglia, stria, per pulire il mantello dell’animale, la museruola per i vitelli; in un angolo erano riposte la forca e la scopa per ripulire la stalla dal letame, scoa e forcia da grassa.

Il pavimento, d’acciottolato o di tavole di legno, talvolta si presentava leggermente più alto dove si trovavano le poste degli animali ed aveva un canale di scolo per i liquami, cuneta\gatol.

Le stalle erano provviste di una o due piccole finestre con sbarre o rete metallica [52]. Sullo stipite della porta, anch’essa di piccole dimensioni, in alto era appeso un quadro con il crocifisso o, più spesso, un’immagine di Sant’Antonio a cui la popolazione era particolarmente devota e affidava la protezione dei propri animali. L’ambiente della stalla era complessivamente buio e poco arieggiato e non sempre consono ad accogliere gli animali per un così lungo periodo.

Fuori della stalla veniva tenuto il letamaio, la corte de grassa\ledame. Era abitudine in Cadore non provvedere a contenere né coprire in alcun modo il letame; veniva tenuto ammucchiato e lasciato sotto ogni sorta d’intemperie che ne depauperavano le sostanze più nutritive. Non era raro, lo ricordano in molti, vedere scorrere, anche per le strade del paese, liquame proveniente dai cumuli di letame. Lo stallatico quando non è ancora raccolto in cumulo nel letamaio, ma si trova in stalla o meglio nei pascoli, è definito con il termine borba.

La cura e l’allevamento degli animali, indicata con verbo guernà, soprattutto nelle stalle di piccole dimensioni, era compito principalmente delle donne. Queste si recavano in stalla tre volte al giorno: la mattina presto, a mezzogiorno, la sera. In stalla si entrava con degli zoccoli appositi, le dalmede, in legno o con la tomaia in cuoio; quando faceva buio si usava il lume a petrolio che era tenuto in casa e veniva acceso prima di partire.

Alla mattina, innanzitutto, si procedeva alla pulizia della stalla; con le forche veniva raccolto il letame misto a foglie e depositato in una carriola, barèla, per poi trasportarlo nel letamaio, portà fòra. Il pavimento veniva ripulito, netà dó, con una scopa composta da un lungo manico e un fascio di rametti di nocciolo o altro, tenuti assieme con filo di ferro. La lettiera veniva quindi rinnovata. Il verbo che indica tale procedura è starnì\sterne, mentre per il materiale della lettiera si usa l’espressione roba da sterne\sternadura. Si trattava perlopiù di foglia, fóia, di ciliegio o faggio, raccolta dalle donne in autunno nei boschi. Queste foglie venivano custodite durante l’inverno in appositi ripostigli o in un angolo del fienile o della stalla. Si usavano, per la lettiera, anche trucioli di legno, segaditho\th, o le brósse, il fieno scartato dalle mucche che rimaneva nella mangiatoia.

Terminate queste operazioni, cominciava la mungitura. Per tenere calme le bovine veniva loro data una prima e abbondante razione di fieno, brancio\bratho\th de fién\fén. Il mungitore si sedeva su un piccolo sgabello a tre piedi leggermente divaricati, con un sedile di forma ovale o semicircolare o, più recentemente, rettangolare con due tavole laterali che fungono da gambe. La mammella, uro, era pulita con dell’acqua tiepida per togliere eventuali residui di escrementi, quindi massaggiato con le mani per stimolare il flusso del latte, nvenà l late. Con il secchio stretto tra le gambe iniziava la mungitura. Le tecniche variavano da mungitore a mungitore: tra gli informatori, nessuno ha indicato con un nome preciso e particolare la tecnica usata. Genericamente e con l’ausilio delle mani, hanno tuttavia differenziato la stretta a pugno, pui, che consiste nello stringere la teta, il capezzolo, con la mano intera o la stretta col pollice, pòlis, che si effettua stringendo il capezzolo con il dito pollice piegato verso il palmo della mano. Ogni allevatore terminava la mungitura assicurandosi di aver svuotato fino in fondo la mammella, per evitare l’insorgere della mastite, una delle malattie più temute.

La somministrazione di foraggio continuava dopo la mungitura; in genere alle bovine venivano date ad ogni pasto tre razioni di differente qualità di fieno. La prima razione era di fieno del primo taglio, fien\fén da vare, proveniente dai prati di fondovalle; la seconda era di fieno del secondo taglio, utiguói\utivuói, energetico e molto sostanzioso, tanto che tutti gli informatori sono concordi nel sostenere la necessità di limitarne quantitativamente la somministrazione o di mescolarlo con altre qualità. Infine la terza razione era ancora fieno da vare o prade\prà, quest’ultimo proveniente dai prati d’alta montagna. Si tratta di un fieno generalmente meno sostanzioso ma non sempre di scarsa qualità, in quanto anche nei fondi di alta montagna, grazie ad una buona esposizione al sole e alla presenza di erbe e fiori pregiati si poteva ottenere del buon foraggio. L’alimentazione a fieno veniva spesso integrata con l’aggiunta di sorgada, il fusto delle piante di granoturco, sminuzzato e mescolato al fieno, o anche con il bearon\bevaron; questa operazione era indicata anche con l’espressione da de segia [53]. Si trattava di verdure, patate di piccole dimensioni [54], barbabietole e avanzi vari di campo e orto, bolliti in acqua salata e somministrati alla mucca per ottenere più latte.

Fino alla metà del ‘900 nessuna stalla era munita d’acqua corrente e per l’abbeveraggio era necessario portare l’acqua con dei secchi. Durante l’inverno, alla sera, l’acqua gelida era lasciata nelle stalle affinché s’intiepidisse e fosse pronta per la mattina seguente.

Ogni frazione del paese disponeva di una fontana, brénto\brénte, dove rifornirsi e molà le bestie [55] a bere nella bella stagione ed anche in inverno. In stalla si tornava a mezzogiorno per somministrare un’altra razione di fieno. Durante la primavera, quando i lavori della fienagione erano ormai iniziati e il tempo a disposizione era poco, molte famiglie non potendo recarsi in stalla, alla mattina riponevano il fieno nelle rastrelliere

Alla sera, verso le sei, si tornava in stalla una seconda volta per mungere e portare il latte in latteria. Così terminava la giornata.

La quantità di capi bovini in stalla era talvolta indipendente dalla disponibilità di terreni e prati da destinare al taglio del fieno. Poteva accadere che una famiglia non avesse fieno a sufficienza per allevare le proprie mucche, o un’altra disponesse di una quantità di fieno maggiore rispetto al numero di bovini allevati. Così alcuni allevatori portavano le proprie mucche a invernà, ovvero a trascorrere alcuni mesi, prima dell’alpeggio, in una stalla di altra proprietà. La stabulazione a metà, dell’animale, comportava un vantaggio reciproco per il proprietario del bovino e per quello della stalla e del fieno. Il primo beneficiava della proprietà di un capo bovino in più, il secondo ricavava del guadagno dall’esubero di fieno: infatti, nel periodo in cui l’animale era in ‘prestito’, il prodotto della latteria veniva diviso a metà tra i due proprietari.

Note al testo:

[50] Elio Migliorini – Alessandro Cucagna, op. cit., pagg.. 192-193, 202-209 [torna su]

[51] G. D., anni 64, ex emigrante, Domegge di Cadore, autunno 1998. [torna su]

D. (domanda)

D. In stalla chi era che accudiva alla mucca, che la mungeva, quello che si dice guernà?

– In genere la faccenda era divisa tra i componenti della famiglia. Ma c’era sempre qualcuno che faceva di più. Mia mamma andava spesso a pulire la stalla, che si diceva “portare il letame fuori dalla stalla”, a rifare la lettiera alla mucca; a mungerla no, era mio papà e mia nonna finché è vissuta. Dopo bisognava… il fienile era o sopra la stalla o di fianco alla stalla, quindi bisognava andare a prendere il fieno e portarlo nella mangiatoia, dare da bere alla mucca. D’inverno , quando c’era proprio tanto freddo, preparavano i secchi con l’acqua, che bevessero in stalla, ma non appena era possibile venivano liberate dalla stalla e portate alla fontana, che ogni frazione del paese aveva una fontana, a quei tempi quasi apposta per abbeverare la…le mucche. E andavano su alla fontana e si diceva “andare ad abbeverare le mucche”. E questo era il lavoro da fare nella stalla alle mucche , chi ne aveva una o chi ne aveva due, ma era così. Naturalmente fuori dalla porta della stalla c’era subito il letamaio… il letamaio con il letame, dove lo si portava fuori dalla stalla e lo si ammucchiava per poi…durante l’inverno portare per i prati, no, per i campi , per i prati, per le vare. E questo naturalmente era un lavoro da fare giornalmente, ogni giorno bisognava fare ‘sta cosa. In più ogni giorno bisognava cambiare quello che era il letto della mucca quando dormiva, no, e che…A quei tempi si andava nella Vizza, noi di Deppo andavamo nella Vizza a rastrellare tutte le foglie che c’erano sotto i faggi, le portavamo a casa legate nei teli, caricate sulle slitte, i teli caricati con le foglie, portate a casa e c’era un posto esclusivamente riservato per il deposito di queste foglie. Foglie che erano dette “per fare la lettiera” A sterne significa sparpagliare queste foglie e fare il letto sotto alla mucca, dove dorme.

D. Ma il fieno come veniva portato dal fienile… dal tabià, alla stalla: come si porta?

– Allora: c’erano dei fienili che poiché erano sistemati proprio sopra la stalla, allora in un angolo del fienile veniva fatta una botola che era in comunicazione con la stalla sotto; allora salivano sul cumulo di fieno, prendevano la quantità richiesta per…per il pasto della mucca, no, e lo buttavano giù per questo buco; qualche volta il buco arrivava direttamente nella mangiatoia, qualche volta arrivava di fianco. Allora andavano in stalla dove era caduto questo fieno, lo prendevano e lo mettevano nella mangiatoia dove la mucca naturalmente poi mangiava.

[52] Antonio Barpi, medico veterinario del Cadore riferisce, nel volumetto, La Pastorizia in Cadore, Pieve di Cadore, Tipografia Tiziano, 1876, l’usanza di spalmare del letame intorno alle finestre, per otturare eventuali fessure tra lo stipite della finestra e il vetro o un telaio di chiusura. [torna su]

[53] Espressione rilevata a Lozzo di Cadore. [torna su]

[54] A Domegge queste patate sono dette chègole. [torna su]

[55] Il termine molà\molà fòra indica ‘liberare’ e quindi ‘portare i bovini fuori dalla stalla’, sia per abbeverarli alla fontana che per condurli a pascolare o camminare dopo l’inverno trascorso al chiuso. [torna su]